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2 agosto 2015

Il mistero del sale




In alchimia il sale è uno dei Tre Principi, presenti sia nel cosmo sia nell’uomo: una triade mistica, composta dal sale, dal mercurio e dallo zolfo. Benché si presenti come una polvere bianca, inerte, il sale è uno dei grandi misteri e simboli dell’iniziazione. Nella tradizione alchemica esso era l’emblema di un patto sacro che non poteva mai essere rescisso, simile a quello che il neofita stringeva con la sua scuola o il suo maestro. «Il patto di sale» di cui parla l’Antico Testamento potrebbe avere un significato diverso da quello che gli viene di solito attribuito. Il Nuovo Testamento è meno evasivo al proposito: in Matteo, infatti, «sale della terra» sono gli eletti, ossia gli iniziati e non, come si tende oggi a pensare, quanti sono poco più che semplici contadini. Nei secoli lontani gli eletti sedevano al posto d’onore, «più in alto del sale», perché avevano conquistato il sale che avevano dentro di sé. Come si spiegherebbe altrimenti tutta l’importanza che nei convivi medievali veniva attribuita al salinum, ossia alla saliera?

Gli studiosi, naturalmente, potrebbero obiettare che le nostre associazioni linguistiche intorno alla parola sal contengono tracce di etimologie di origine diversa. Può anche darsi, però resta il fatto che già nei primi testi latini a noi pervenuti sal, oltre a denotare il comune sale da cucina, aveva il significato di «astuzia» e «arguzia». Un bravo buffone era sempre «un matto con del sale in zucca» e veniva remunerato per i suoi meriti, dunque non era affatto pazzo nel senso comune del termine.

Paracelso, il grande maestro del Rinascimento italiano, descrive in vari suoi testi alchemici la formula per realizzare l’acqua di sale, espressione con cui indica, in modo appena velato, l’iniziazione. Egli consiglia di «distillare un numero sufficiente di volte finché il sale non si distaccherà». Non ci vorrà molto, dice Paracelso,  perché il sale «non penetra nella natura interiore». Quando il sale se ne sarà andato, «allora nel liquido si troverà l’oro». Questa descrizione è quasi un sommario del processo iniziatico: la rimozione della scorza, che non penetra nella natura interiore, e il recupero sacro, nascosto all’interno. Analizzando la formula, ci si accorge che essa non produce, né per Paracelso né per noi, l’acqua di sale, bensì un’acqua desalinizzata, ossia un iniziato che non può più piangere. «Prima che gli occhi possano vedere, devono essere incapaci di lacrime» dice il testo arcano.

Gli alchimisti ponevano talora a emblema del sale il più semplice di tutti i sigilli: un minuscolo quadrato  o un piccolo rettangolo. Con quelle quattro linee che descrivono uno spazio vuoto – come lo spazio fra l’Aria e l’Acqua – intendevano delineare i misteri dei quattro elementi o disegnare una bara? Il reverendo Brewer, un colto collezionista di idee curiose, totalmente ignaro di esoterismo, ci ricorda la consuetudine, tuttora esistente, di porre una manciata di sale nella cassa del morto.

C’è forse un nesso fra il sale e la morte? Un altro sigillo del sale – usato con frequenza nei gruppi alchemici rosacrociani – era un cerchio tagliato a metà da una linea orizzontale Θ . Quel sigillo deriva dalla theta maiuscola di Thanatos, che in greco significa «morte».

In numerosi testi alchemici il sale rappresenta il processo mentale, che è un processo di morte. Il sale è il residuo dell’attività spirituale che avviene nella nostra testa: come nelle triade alchemica, è la scoria che resta quando la vita è volata via, è il cranio, il caput mortuum, la polvere bianca residua dopo l’estrazione dell’oro. È la cenere del pensiero.

Quando la testa – o la sua attività spirituale che chiamiamo mente – raggiunge il punto in cui non è più in grado di capire, in cui l’ordine dell’universo sembra frantumarsi, allora produce lacrime salate.

Ma perché mai il pensiero – quel processo che ha prodotto la nostra tanto decantata civiltà di superficiale razionalismo – dovrebbe essere associato alla morte nei circoli arcani? Noi moderni non dovremmo invece sostenere che il pensiero è la nostra salvezza, la strada che ci condurrà alla terra promessa? Qualsiasi iniziato che abbia un granello di sale, inutile dirlo, contesterebbe questa interpretazione. L’autore anonimo di A discourse of Fire and Salt («Discorso del fuoco e del sale») spiega chiaramente che fra il sale e il fuoco avviene uno scambio mistico. Ci sono due sali, afferma questo adepto, l’uno nato dall’attività del fuoco e l’altro il residuo rimasto quando le fiamme si spengono, che è a sua volta «un fuoco potenziale». In questa perpetua interazione fra fuoco e sale che sta alla base del mondo fenomenico il sale rappresenta lo stato inerziale della morte. Nessun alchimista tuttavia sosterrebbe mai che una cosa può morire nel senso di essere esclusa per sempre dalla vita. La morte è un interludio fra una vita e l’altra.

Un tempo, però, esisteva il sale del vero pensiero, che non era neppure sfiorato dalla contaminazione della morte. Allora, anche le invenzioni delle menti più raffinate, come quelle dei poeti romani, erano saporite come il sale, erano salsae, ossia mordaci e facete. Di certo i versi sgorgavano di getto dalla mente dei loro autori; in latino salire significa «saltare», «guizzare fuori», da cui la parola saltatore: i latini sapevano che dalla sfera spirituale le idee penetravano d’un balzo nella mente dei poeti. Una parola dal suono così simile al nome di quel semplice condimento quotidiano non può che suggerirci qualche profondo significato riposto. Sono molti i misteri del mondo antico che la parola sale richiama: c’erano, per esempio, i Salii, quei «saltatori» splendidamente vestiti, danzatori dell’aria, che costituivano uno dei tanti collegi sacerdotali romani. Di loro sappiamo soltanto che cantavano e parlavano in una lingua incomprensibile, che erano votati al culto di Marte e formavano una confraternita esoterica. La lingua incomprensibile che parlavano era la Lingua degli Uccelli – ossia il linguaggio segreto dell’esoterismo – e i loro «salti» erano una forma di danza sacra.

Mark Hedsel, L'iniziato

7 marzo 2015

I segreti di Iside: la ricerca della prima materia




La pratica della segretezza era piuttosto diffusa nel Medioevo. Persino gli alchimisti, che scrissero e pubblicarono migliaia di testi per illustrare la loro arte, accennavano di rado ai misteri di Iside: i loro segreti li riponevano in codici, sigilli e scritture cifrate che soltanto altri adepti potevano comprendere. Non rivelavano mai i segreti della loro arte ai profani, a quelli che avevano la spada sguainata.

Per gli estranei gli scritti e i disegni degli alchimisti sono lettera morta. Come tutti gli iniziati prima di loro, anche gli alchimisti hanno mantenuto il riserbo, hanno tenuto la bocca chiusa. Le tante pubblicazioni alchemiche non erano destinate a illuminare gli ignoranti: erano rivolte ai pochi sapienti. 

Analogamente alle chiese e alle cattedrali, che avevano un vestibolo esterno, il nartece, destinato ai catecumeni, e i «cori» o zodiaci sacri e persino cerchi della danza, riservati agli iniziati, allo stesso modo i laboratori alchemici avevano spazi riservati agli aspiranti. Questi erano i luoghi d’Aria, cioè luoghi per ascoltare, leggere parole e studiare i segreti preliminari dispensati tramite l’elemento aereo. Soltanto dopo questo battesimo dell’Aria, il neofita poteva diventare zelatore, stare davanti al Fuoco e avere persino il permesso di contemplare il Fuoco Segreto del Sole nascosto.

Ma prima che gli venisse concessa la visione più alta, egli doveva imparare a conoscere l’alchimia interna, che è la ricerca di quella prima materia – crittogramma di «Prima mater», una delle manifestazioni di Iside – da cui dipende il processo iniziatico.

L’idea che tutta la materia attenda di essere redenta viene espressa in alchimia e nella letteratura ermetica con l’immagine della prima materia (prima materia) che sta alla base dell’Opera. Nel linguaggio segreto dell’esoterismo – la Lingua Verde – la materia viene scissa in ma e ter. Essa è la Grande Madre originaria, la Mater, la Madonna, lo spirito che sta dentro le cose. Ma è anche ter, la terra, la scoria. I vari gruppi esoterici descrivono in modi diversi questa separazione fra spirito e terra, ma quasi nessuno nasconde interamente il segreto della scissione. Boheme separa la prima materia in Fuoco e Terra, ma precisa che esistono varie forme di Fuoco, secondo una delle regole ermetiche fondamentali che allude al segreto dell’intera Opera.

A livello microcosmico o umano, la Grande Opera consiste nell’autocreazione dell’uomo: dall’uomo-Terra egli crea l’uomo spirituale, l’uomo-Fuoco o uomo igneo. La pietra degli alchimisti (e anche dei veri massoni) deve essere lavorata e ben squadrata. La pietra angolare è la prima materia, ed è per questo che si dice porti inscritto il Nome. Questo, mai pronunciato davanti a chi sia ai primi stadi dell’iniziazione, è il nome di Dio, la goccia di divino che deve essere liberata dalla pietra per tornare alle proprie origini. È la Spada nella roccia del ciclo arturiano.

Nel frontespizio del libro di alchimia Arcana Arcanissima, che si propone di rivelare il Segreto dei Segreti a tutta l’umanità, Iside viene raffigurata con la veste lacerata sulla coscia, a simboleggiare che la dea è stata di nuovo denudata, ossia che i suoi segreti sono stati divulgati. Molti dei disegni contenuti in questo testo nascondono il segreto dell’alchimia, che l’autore, il Rosacroce tedesco Michael Maier, definì appropriatamente aureum animi et corporis medicamentum, «aureo medicamento dell’anima e del corpo».

Ma nessuno, che fosse ignaro della scienza segreta, avrebbe saputo quale interpretazione dare a queste rozze illustrazioni, in cui con curiose immagini si racconta l’intera storia dell’arte spagirica o alchemica.

Che cosa distingue dal resto dell’umanità chi ha contemplato le nudità di Iside? Spogliandosi della materia scura (o, com’è chiamata talora, materia nera) l’iniziato può contemplare la Prima mater, ossia Iside, che è la materia bianca. Egli, infatti, dicono gli alchimisti, si è spogliato del lato oscuro del suo essere, della materia nera che lo trattiene sulla Terra abitata dagli assopiti, vale a dire dagli schiavi della dea lunare, Selene. All’umanità si impone una scelta: o dormire con Selene, o svegliarsi con Iside.

Una delle incisioni più belle prodotte dai laboratori alchemici del XVI secolo riporta un motto latino sul dovere per l’adepto di vigilare. È il suo compito principale: l’adepto deve restare sveglio, anche quando è immerso nel sonno naturale. Il segreto è tutto racchiuso qui, in questa ingiunzione, che ordina all’iniziato di non soggiacere all’influenza soporifera della buia Luna. Il vero alchimista, il vero iniziato, non deve ricadere nella condizione della moltitudine che dorme.

Mark Hedsel

1 dicembre 2014

La tradizione del matto-savio: poeti, lirici e trovatori




Mark Hedsel non ha fatto misteri sulla via da lui seguita, che era la Via del Matto: una via in parte estrinsecata nei disegni arcani dei ventidue atout dei tarocchi tradizionali, quelli di cui si serve la divinazione popolare. La via a cui Mark era stato iniziato conduce a una conoscenza talmente diversa da quella comune che quanti la perseguono rischiano continuamente di venire fraintesi. Basta un lapsus o un gesto inappropriato per passare davvero per matti.

La Via del Matto, come si vedrà chiaramente da quello che segue, ha un legame molto stretto con lo sviluppo interiore dell’ego. Alimentare l’ego è un’impresa pericolosa: fra i seguaci di questa via sono pochi quelli che di tanto in tanto non incespicano e cadono.

«Mark, tu hai detto che questo sviluppo della coscienza dell’ego era molto evidente fra gli artisti. L’ego ha forse emesso i suoi primi vagiti nella Firenze del XV secolo?»

Mark sorrise, come se si aspettasse la mia domanda.

«Diversi secoli prima, David. Vedi, poeti e musicisti percepiscono l’evoluzione e i cambiamenti spirituali della psiche umana con molto anticipo rispetto agli altri. I pittori e gli scultori, nonostante la loro tanta decantata capacità di visione, sono più terreni dei poeti e dei musicisti: i poeti hanno antenne speciali per queste cose. In un certo senso sono i “raccoglitori del vento”. Quando nell’aria c’è un cambiamento spirituale, i primi a fiutarlo sono in genere i poeti, che l’esprimono in liriche e canzoni. I poeti sono sognatori sensitivi. Tutti gli artisti – poeti, pittori, musicisti – sognano le loro immagini prima di inserirle nelle loro opere, ma il poeta sogna più profondamente.

«Dunque, i veri visionari sono i poeti. Sono loro a percepire gli sviluppi spirituali: nella letteratura europea i primi timidi segni del matto-savio compaiono fra i chierici-poeti erranti del Medioevo, fra i trovatori e i lirici della Francia meridionale, dove a quel tempo era tutto un fiorire di eresie.»

«La Via del Matto risale quindi all’XI secolo?»

«Sì, può darsi, non sono un esperto della questione; ma a me pare che il Monaco d’Orlac sia stato il primo, agli inizi del XII secolo, ad affrontare con vera convinzione l’idea del matto-savio. I suoi versi hanno il sapore della follia, che può facilmente essere scambiata per pazzia da quanti non sanno, da quanti non conoscono la visione esoterica.

«Questo significa due cose: o le composizioni del Monaco d’Orlac erano ispirate a una religiosità troppo profonda per la gente comune, oppure erano scritte nella Lingua Verde, ossia nel linguaggio in codice degli esoteristi e degli alchimisti. In una sua poesia, dedicata a un amico poeta, il Monaco scrive: “In tutta la sua vita ha cantato soltanto poche folli parole da nessuno intese”. Quel poeta era Arnaut Daniel, il quale cantò splendidamente di aver cacciato la lepre con il bue, e nuotato contro corrente...

«Tutto questo, naturalmente, se preso alla lettera, non ha molto senso. Il fatto è però che il Monaco d’Orlac e Arnaut Daniel erano fratelli sulla Via: il primo sapeva benissimo che cosa volesse dire Arnaut quando affermava di saper nuotare contro corrente e cacciare con il bue.

«Quello che affascina è che nella sua opera il Monaco, come tanti altri poeti del tempo, insiste a dire che nessuno può capire davvero quello che lui e i suoi “confratelli” scrivono.

«Sappiamo benissimo che i poeti spesso si lamentano di essere incompresi, ma nel caso del Monaco d’Orlac e dei suoi compagni la questione è diversa. A un poeta qualsiasi, che si rammarichi di non essere capito, si può rispondere semplicemente: “Scrivi in modo più chiaro!”. Ma una risposta del genere sarebbe ingiusta nei confronti di questi poeti provenzali, perché essi si sforzavano di comporre versi da una prospettiva completamente nuova. Nessuno li capiva perché essi avevano sviluppato organi spirituali con cui vedevano molto più in là del campo visivo dei loro contemporanei.»

Si schiarì la voce. «Uno di loro scrisse, cito a memoria: “E quando, nella città terrena, che è piena di pazzi, Dio risparmiò un uomo, fu considerato pazzo. Lo maltrattarono perché la sua saggezza non era la loro, perché per loro lo spirito di Dio è follia...”

«Sono parole che possono sembrare prive di senso, e invece per l’ermetista esperto sono il segno che chi le pronuncia è già sulla strada che conduce allo sviluppo di un ego forte, ha già compiuto i primi incerti passi verso la Via del Matto.

«La tradizione del matto-savio – o del matto iniziato – è una corrente che attraversa tutta la letteratura medievale francese e culmina nel più grande “buffone” di tutti i tempi, in quel giullare del XVI secolo che fu François Rabelais. Con la sua straordinaria arguzia e comicità, Rabelais apparteneva di fatto alla tradizione trovadorica e sapeva che pochi dei suoi lettori l’avrebbero seguito nelle sue piroette intorno ai livelli più profondi di significato. Rabelais non nascose che il vero argomento dei suoi libri era l’iniziazione, ma ne celò i misteri e gli insegnamenti avvolgendoli nello splendore della Lingua Verde: dietro la sua giocosità ciarliera egli mantenne il silenzio. Il genio dell’autore francese è tale che vale la pena leggere la sua opera comunque, anche quando non se ne colgono i livelli più profondi. Il suo è un vero matteggiare poetico. Non è un caso che sul frontespizio della prima edizione del suo giullaresco racconto iniziatico, pubblicato nel 1532, Rabelais abbia posto una xilografia del Matto.

«Guardando questa interessante immagine è inevitabile pensare a una versione più sofisticata dello stesso tema, alle diverse versioni del Matto dipinte da Hieronymus Bosch. Il Matto di Bosch indossa, com’era prevedibile, vesti cristiane: la sua figura compare per esempio nel contesto del Figliuol prodigo, ma chiunque abbia familiarità con lo spirito di inizio XVI secolo riconosce in essa la raffigurazione di un essere umano in travaglio, che cerca di rispondere alla nuova sfida dell’evoluzione dell’ego. Non per niente questo dipinto in passato è stato chiamato «Il Matto», e la follia è un tema che Bosch sviluppa in molte altre tele. Le ragioni di tutto questo si chiariranno a mano a mano che procederemo: qui volevo soltanto dimostrare che le immagini della poesia, fatte di parole, furono infine fissate in figure e simboli dalla pittura.

«La follia-saggezza di cui tanto si dilettavano Rabelais e Bosch era in realtà cominciata come la vera arte dei trovatori.»

Desideravo tornare un attimo indietro, e perciò chiesi a Mark: «C’è una ragione, parlo in termini cosmologici, per cui il poeta è dotato di una particolare sensibilità?».

«Sì. Il poeta usa le parole. La mia potrebbe sembrare un’ovvietà, ma la verità è che nelle parole ci sono i misteri. Non è affatto un caso se al più grande mistero di tutti, il Logos, viene attribuito anche il senso di “Parola-Verbo”. Quando il poeta usa parole e forme nuove nessuno lo comprende, e questo i trovatori lo sapevano. Prima che una società sia in grado di recepire un’idea nuova, bisogna che si crei un nuovo lessico, le parole vecchie possono parlare soltanto di cose vecchie: sono come binari arrugginiti che corrono sempre nella stessa direzione. Le cose nuove, le direzioni nuove, richiedono parole nuove. Per un poeta vero è molto difficile parlare ai suoi contemporanei, perché il linguaggio che egli usa e forgia verrà compreso interamente soltanto dalle generazioni future...»

Mark Hedsel, L'iniziato