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23 marzo 2016

La Sheelah-Na-Gig




La Sheelah-Na-Gig è una delle più strane testimonianze del paganesimo che si possano vedere nelle chiese europee. È l’immagine di una donna con le pudende esposte in modo tale da sembrare una porta spalancata. Il riferimento alla vulva come porta della nascita è chiaro: la figura aveva, forse anche nel mondo pagano, un’origine iniziatica. Meditando su questa immagine si ha l’impressione che la kteis terrena – il didietro della capra, tanto per intenderci – si sia tramutata nella bocca di una vergine sacerdotessa. L’apertura verticale è una promessa di accesso iniziatico, che conduce al di là del corpo fisico della Sheelah.

Si potrebbe forse sostenere che la Sheelah non è più pagana, che raffigura la nascita umana di Cristo, o che simboleggia il Cristo, come portale della vita. Ma sono argomentazioni che si smentiscono da sole, perché la Sheelah è molto più antica del cristianesimo e non basta cambiare interpretazione per cambiare il significato di un simbolo. Che queste immagini lascive siano riuscite a sopravvivere in tante chiese cristiane è già di per sé motivo di meraviglia e forse nasconde una lunga storia.

Secondo Gerald Massey, Sheelah deriva dall’egiziano sherah, che significa “sorgente”, “acque sorgive”, ma anche “rivelare”, “mostrare”, che è precisamente quanto fa la Sheelah dalle facciate e dai campanili delle chiese medievali: mostra le sue parti intime, la sua kteis. Avrete già capito che se non solo il nome, ma anche l’immagine è di origine egizia, allora la Sheelah esibisce il ru.

Senza alzarsi dalla sedia, il maestro allungò il braccio verso la lavagna e disegnò le due curve che formano il geroglifico, accentuando il movimento per dimostrare che il ru era formato da due falci di Luna.

Questo antico segno era a un tempo una kteis, una bocca e una porta, ed era costituito da due mezzelune. Il ru era la porta di ingresso al mondo spirituale, quella che conduceva nella camera dell’iniziazione. Era il passaggio della nascita, posto tra il regno materiale e quello spirituale. Il legame con l’iniziazione si è conservato, per esempio, in Irlanda dove la Sheelah viene talora chiamata Patrick’s Mother, “la madre di Patrizio”, e questo ci ricorda che fu San Patrizio a introdurre sull’isola l’iniziazione al cristianesimo, sostituendo agli antichi metodi iberici dei druidi quelli più avanzati di Cristo. La conversione fu graduale, e le immagini e i luoghi sacri più antichi continuarono a esistere. Già questo è di per sé interessante. Perché, se c’è al mondo una terra in cui gli antichi siti di iniziazione pagana sono ancora vivi, questa è l’Irlanda.

Ma torniamo al ru. Se è vero che è sopravvissuto nella figura semi oscena della Sheelah, è anche vero che compare in immagini cristiane molto più pudiche. Ru è diventato la Vesica Piscis, la mandorla mistica, che nell’arte medievale circonda la Madonna e a volte Cristo. La Vesica è formata anch’essa da due mezzelune che si incrociano. Comprenderete, naturalmente, quanto sia straordinario che la Sheelah sia riuscita a sopravvivere nell’arte ecclesiale: la kteis, per quanto ben mascherata, non è ovviamente un simbolo cristiano, d’altra parte la Sheelah non fa di certo mistero della sua mercanzia.

Se Massey è nel giusto, e il gig del nome deriva dall’egiziano kekh, allora il nome tutt’intero allude alle sue origini iniziatiche, e poiché in egiziano antico kekh significava “santuario”, si capirebbe perché mai la Sheelah si trovi esclusivamente sui muri delle chiese. O c’è forse ancora un significato più profondo? Che la Sheelah sia il retaggio – forse l’unico rimasto nell’arte cristiana – dell’antica magia sessuale tanto diffusa nel mondo pagano e ancora oggi praticata in oriente fra i tantrici? Quanto più si considera la questione, tanto più si è indotti, io credo, a vedere proprio questo nella Sheelah.

Mark Hedsel, L'iniziato

2 agosto 2015

Il mistero del sale




In alchimia il sale è uno dei Tre Principi, presenti sia nel cosmo sia nell’uomo: una triade mistica, composta dal sale, dal mercurio e dallo zolfo. Benché si presenti come una polvere bianca, inerte, il sale è uno dei grandi misteri e simboli dell’iniziazione. Nella tradizione alchemica esso era l’emblema di un patto sacro che non poteva mai essere rescisso, simile a quello che il neofita stringeva con la sua scuola o il suo maestro. «Il patto di sale» di cui parla l’Antico Testamento potrebbe avere un significato diverso da quello che gli viene di solito attribuito. Il Nuovo Testamento è meno evasivo al proposito: in Matteo, infatti, «sale della terra» sono gli eletti, ossia gli iniziati e non, come si tende oggi a pensare, quanti sono poco più che semplici contadini. Nei secoli lontani gli eletti sedevano al posto d’onore, «più in alto del sale», perché avevano conquistato il sale che avevano dentro di sé. Come si spiegherebbe altrimenti tutta l’importanza che nei convivi medievali veniva attribuita al salinum, ossia alla saliera?

Gli studiosi, naturalmente, potrebbero obiettare che le nostre associazioni linguistiche intorno alla parola sal contengono tracce di etimologie di origine diversa. Può anche darsi, però resta il fatto che già nei primi testi latini a noi pervenuti sal, oltre a denotare il comune sale da cucina, aveva il significato di «astuzia» e «arguzia». Un bravo buffone era sempre «un matto con del sale in zucca» e veniva remunerato per i suoi meriti, dunque non era affatto pazzo nel senso comune del termine.

Paracelso, il grande maestro del Rinascimento italiano, descrive in vari suoi testi alchemici la formula per realizzare l’acqua di sale, espressione con cui indica, in modo appena velato, l’iniziazione. Egli consiglia di «distillare un numero sufficiente di volte finché il sale non si distaccherà». Non ci vorrà molto, dice Paracelso,  perché il sale «non penetra nella natura interiore». Quando il sale se ne sarà andato, «allora nel liquido si troverà l’oro». Questa descrizione è quasi un sommario del processo iniziatico: la rimozione della scorza, che non penetra nella natura interiore, e il recupero sacro, nascosto all’interno. Analizzando la formula, ci si accorge che essa non produce, né per Paracelso né per noi, l’acqua di sale, bensì un’acqua desalinizzata, ossia un iniziato che non può più piangere. «Prima che gli occhi possano vedere, devono essere incapaci di lacrime» dice il testo arcano.

Gli alchimisti ponevano talora a emblema del sale il più semplice di tutti i sigilli: un minuscolo quadrato  o un piccolo rettangolo. Con quelle quattro linee che descrivono uno spazio vuoto – come lo spazio fra l’Aria e l’Acqua – intendevano delineare i misteri dei quattro elementi o disegnare una bara? Il reverendo Brewer, un colto collezionista di idee curiose, totalmente ignaro di esoterismo, ci ricorda la consuetudine, tuttora esistente, di porre una manciata di sale nella cassa del morto.

C’è forse un nesso fra il sale e la morte? Un altro sigillo del sale – usato con frequenza nei gruppi alchemici rosacrociani – era un cerchio tagliato a metà da una linea orizzontale Θ . Quel sigillo deriva dalla theta maiuscola di Thanatos, che in greco significa «morte».

In numerosi testi alchemici il sale rappresenta il processo mentale, che è un processo di morte. Il sale è il residuo dell’attività spirituale che avviene nella nostra testa: come nelle triade alchemica, è la scoria che resta quando la vita è volata via, è il cranio, il caput mortuum, la polvere bianca residua dopo l’estrazione dell’oro. È la cenere del pensiero.

Quando la testa – o la sua attività spirituale che chiamiamo mente – raggiunge il punto in cui non è più in grado di capire, in cui l’ordine dell’universo sembra frantumarsi, allora produce lacrime salate.

Ma perché mai il pensiero – quel processo che ha prodotto la nostra tanto decantata civiltà di superficiale razionalismo – dovrebbe essere associato alla morte nei circoli arcani? Noi moderni non dovremmo invece sostenere che il pensiero è la nostra salvezza, la strada che ci condurrà alla terra promessa? Qualsiasi iniziato che abbia un granello di sale, inutile dirlo, contesterebbe questa interpretazione. L’autore anonimo di A discourse of Fire and Salt («Discorso del fuoco e del sale») spiega chiaramente che fra il sale e il fuoco avviene uno scambio mistico. Ci sono due sali, afferma questo adepto, l’uno nato dall’attività del fuoco e l’altro il residuo rimasto quando le fiamme si spengono, che è a sua volta «un fuoco potenziale». In questa perpetua interazione fra fuoco e sale che sta alla base del mondo fenomenico il sale rappresenta lo stato inerziale della morte. Nessun alchimista tuttavia sosterrebbe mai che una cosa può morire nel senso di essere esclusa per sempre dalla vita. La morte è un interludio fra una vita e l’altra.

Un tempo, però, esisteva il sale del vero pensiero, che non era neppure sfiorato dalla contaminazione della morte. Allora, anche le invenzioni delle menti più raffinate, come quelle dei poeti romani, erano saporite come il sale, erano salsae, ossia mordaci e facete. Di certo i versi sgorgavano di getto dalla mente dei loro autori; in latino salire significa «saltare», «guizzare fuori», da cui la parola saltatore: i latini sapevano che dalla sfera spirituale le idee penetravano d’un balzo nella mente dei poeti. Una parola dal suono così simile al nome di quel semplice condimento quotidiano non può che suggerirci qualche profondo significato riposto. Sono molti i misteri del mondo antico che la parola sale richiama: c’erano, per esempio, i Salii, quei «saltatori» splendidamente vestiti, danzatori dell’aria, che costituivano uno dei tanti collegi sacerdotali romani. Di loro sappiamo soltanto che cantavano e parlavano in una lingua incomprensibile, che erano votati al culto di Marte e formavano una confraternita esoterica. La lingua incomprensibile che parlavano era la Lingua degli Uccelli – ossia il linguaggio segreto dell’esoterismo – e i loro «salti» erano una forma di danza sacra.

Mark Hedsel, L'iniziato

27 marzo 2015

Arte esoterica a Verona: la porta bronzea di San Zeno




Quel martedì pomeriggio, quando parcheggiammo l’automobile nella piazza davanti a San Zeno, Rachel e Christobel erano accanto a uno dei leoni marmorei che stanno a guardia del portico della chiesa. Fummo sorpresi di vederle, perché avevamo accennato solo vagamente ad un incontro, e questo quasi due settimane prima; inoltre, sono così tante le bellezze dell’Italia settentrionale che possono tentare un viaggiatore facendolo deviare dal suo itinerario! Qualche istante dopo eravamo già sotto il portico ed esaminavamo le splendide formelle della porta bronzea. Era un pomeriggio caldo, soffuso di quella piacevole indolenza che si coglie in quasi tutte le piazze italiane, eppure in quell’aria pigra percepivamo un’attesa, come se stesse per accadere qualcosa di importante.

Per qualche istante guardammo in silenzio i pannelli: sotto i raggi del Sole i bassorilievi si stagliavano nitidi in mezzo alle ombre.

«Di che periodo sono?» chiese Christobel.

«Alcuni del XII, altri del XIII secolo.»

«Come quelli della Sacra di San Michele?»

«Sì, forse la Sacra è un poco più antica.»

«Ci sono elementi astrologici?» domandò Rachel.

«Non ovvi» replicammo. «Ma che ne dite di quello?» e indicammo uno dei pannelli.


«È un’acrobata?»

«No, non direi. È Salomè che danza.» Capivamo perché Rachel avesse pensato all’acrobata. Salomè, presa dal desiderio di compiacere Erode, si contorce fino a formare un cerchio. Con una mano si afferra un piede e lo tira verso la testa, danzando, quasi letteralmente, in tondo. «Osservate come la testa sfiori i piedi. Questa è astrologia. O almeno, astrologia medievale.»

«Perché?» la voce di Rachel era dubbiosa.

«Ogni parte dell’essere umano è collegata con una parte del cosmo.»

Avremmo voluto avere davanti l’immagine medievale dell’uomo zodiacale per illustrare i segni che governano il corpo umano, mentre spiegavamo: «La testa è sotto il segno dell’Ariete, la gola del Toro… i piedi dei Pesci. Perciò la testa e i piedi sono governati dai due punti estremi dello zodiaco. Nel cerchio zodiacale i due segni si toccano: i piedi dei Pesci incontrano la testa dell’Ariete. Salomè imita lo zodiaco, unendo il passato dell’Ariete al futuro dei Pesci. I primi cristiani eseguivano danze sacre, nel corso delle quali cercavano di sintonizzare il corpo con i movimenti dei pianeti. Questa è vera astrologia.»

«Salomè sembra un pesce» osservò Christobel.

«Sì, anche questo fa parte del simbolismo. In un certo senso, Salomè è un pesce. Guardate.» Indicammo un punto sulla destra del pannello. «Ecco di nuovo Salomè, con il capo reciso del Battista. Lei è il Pesce, e San Giovanni è l’Ariete: un altro simbolismo cosmico.»

L’uso del pannello offriva la possibilità di realizzare quella che i critici moderni chiamano una «rappresentazione continua»: il tempo viene condensato, e azioni che nella narrazione sono separate vengono raffigurate su un unico piano spaziale. È una tecnica molto antica, risalente all’arte egizia, fondata sul concetto che l’immagine è eterna, ossia è «al di fuori del tempo».

«Ci sono pesci in diversi punti» osservò Rachel. «Guardate, persino sulle foglie.» Quelli di alcune formelle sembravano quasi disegni astratti, con foglie e rami fra cui si annidavano uccelli e pesci.

«Sì.» annuimmo, sorridendo. C’erano due pesci sotto due uccelli e formavano una croce. «Forse vi meraviglia vedere i pesci sugli alberi, come nei racconti biblici, ma non sono stati messi lì semplicemente per stupire. Le foglie e i rami sono un simbolo medievale per quello che noi oggi chiamiamo l’eterico, ma che lo scultore avrebbe probabilmente chiamato quintessenza

«Il quinto elemento?»

«Sì. L’elemento invisibile che tiene uniti gli altri quattro, senza il quale regnerebbe eterna discordia nel patto fra le cose.» Eravamo scivolati, senza accorgercene, nelle citazioni poetiche.

«Quella stessa quintessenza di cui ci ha parlato alla Scala dei morti?» domandò Rachel.

«Proprio quella. Se osservate bene, vi accorgerete che in realtà l’intero pannello è un’allegoria del quinto elemento. Gli uccelli sono l’Aria, i pesci l’Acqua, le piante la Terra e l’orifizio a forma di fiamma fra gli uccelli e i pesci è il Fuoco. Al centro del fuoco ci sono le radiazioni cosmiche del quinto elemento.»

«E pensare che credevo bastasse conoscere la Bibbia per capire l’arte cristiana» disse con una smorfia Rachel.

Scoppiammo tutti e tre a ridere, più che altro per l’espressione buffa comparsa sul viso di Rachel. «Eppure anche la Bibbia ha livelli di simbolismo ancora inesplorati.» Pensieri sulla complessità delle metafore delle Scritture ci attraversarono come un lampo la mente, ma non volevamo fare discorsi troppo complicati con le due ragazze. Tuttavia, una o due cose era forse il caso di spiegarle.

«Non tutti i bronzi sono in realtà di ispirazione biblica; alcuni sono basati sulla Legenda Aurea, una raccolta di miti, leggende e mezze verità sulla vita dei santi, trascritta da Giacomo da Varazze più o meno nello stesso periodo in cui furono scolpite queste porte. La formella con San Zeno che pesca racconta proprio un episodio della Legenda Aurea

«Ma per lo meno qui il simbolismo è cristiano» osservò Christobel, che, essendo una credente convinta, era stata visibilmente turbata dalle immagini pagane della Sacra di San Michele.

«Se ti interessa il simbolismo cristiano, guarda quella crocifissione. Osserva come il Sole irradia la sua luce verso l’esterno. La testa al centro di quel cerchio è quella di Michele, l’arcangelo del Sole.»


«E chi è l’angelo sulla Luna?» domandò. La figura alata spuntava dalla falce di Luna, con le punte rivolte verso l’alto, come una barchetta.

«È Gabriele, l’arcangelo della Luna. La Luna sovrasta la mano destra di Cristo e il Sole la sinistra. La Luna a barchetta è il simbolo dell’Acqua, mentre il Sole è il simbolo del Fuoco. Sono le due forze opposte del cosmo: nella concezione medievale il fuoco sale, mentre l’acqua scende. E tuttavia il mistero cristiano consiste proprio nel «miracolo» del fuoco che scende. Guarda: c’è un punto in cui la luce del Sole assume la forma di un’ala, si distacca dal disco solare e si posa sulla corona di spine di Cristo; questo significa che Cristo, benché crocifisso e morto, è ancora vivo. È vivo nella quintessenza.»

«Se non ricordo male» disse Christobel, «ci fu un’eclisse al momento della Crocifissione.»

«Sì, le tenebre oscurarono la faccia della Terra perché il Sole si era spento, o comunque qualcosa era accaduto. Gli artisti sono sempre stati affascinati dal significato simbolico dell’incontro tra il Sole e la Luna, in particolare nei dipinti che hanno per soggetto la Crocifissione. In questo pannello la luce ricompare in una forma più elevata, come corpo di Cristo. Il Sole-Zodiaco proietta la sua luce su Gesù in croce, affinché, per suo tramite, l’umanità possa fruirne. Esiste un nesso fra questo simbolismo e quello dell’Ariete e dei Pesci contenuto nel pannello di Salomè. Nella Crocifissione la luce piove sul capo di Cristo e i due uomini ai lati della croce sfiorano i piedi di Gesù con i loro piedi. È la stessa allegoria dell’Ariete e dei Pesci. In termini strettamente cristiani è un commento ai primi versetti del Vangelo di Giovanni.»

«E i due uomini? Uno ha in mano uno strumento di tortura. Chi sarebbe?»

«È Nicodemo. Ha le tenaglie. Con quelle strapperà le unghie dalle mani di Cristo.»

«E l’altro, quello che cinge Cristo con le braccia?»

«Quello è Giuseppe d’Arimatea, che accompagnerà Gesù nel sepolcro. È lui che, secondo la leggenda, ha portato in Inghilterra il Graal e l’ha sepolto a Glastonbury. Il suo piede tocca quello di Cristo. Di nuovo i Pesci. Indicano che Giuseppe d’Arimatea è diventato pescatore di uomini sotto la guida di un Pesce. Diversi secoli dopo la realizzazione di questa porta, William Blake scrisse poesie ed eseguì disegni sul tema di Giuseppe d’Arimatea. Blake sapeva cogliere i simbolismi nascosti, e nel racconto della sepoltura di Cristo percepì un significato molto profondo. Era convinto che Giuseppe fosse in segreto un discepolo di Cristo e fosse poi giunto fino in Inghilterra, portando con sé il Graal, che aveva sepolto su un colle, così come aveva sepolto il corpo di Cristo in una caverna nella roccia.»

Le due ragazze osservarono la porta con un rinnovato interesse. Rachel cominciò a contare i raggi del Sole. Erano ottantotto, come le fiamme del cerchio di fuoco del Signore della danza, Shiva.

Christobel a sua volta contò i pesci sparsi nei vari pannelli. Arretrammo di qualche passo e restammo a guardare. Era affascinante vedere un’opera esoterica irradiare la sua influenza e trasmettere i suoi simboli arcani ancora dopo tanti secoli.

Appena prima, mentre parlavamo, avevamo notato un uomo allampanato, pantaloncini e camicia a scacchi aperta sul collo, con la faccia cotta dal Sole e un sorriso cordiale. Si aggirava nei dintorni, abbastanza vicino per ascoltare le nostre parole. In spalla aveva un grosso zaino sul quale era cucita una bandiera a stelle e strisce. Chissà se sapeva che quella bandiera era un simbolo segreto e che le strisce rappresentavano il ples daun, mentre le stelle bianche erano i cieli? E sapeva che sulla porta davanti a noi c’era, come sul suo stendardo, una stella a cinque punte – la stella di Betlemme – e che quella stella era un geroglifico sacro egiziano?

L’uomo indugiò per qualche istante sugli scalini del portico, poi all’improvviso se ne andò prendendo verso nord e ben presto scomparve alla nostra vista.

Christobel riportò l’attenzione sulla porta. Indicò la formella in cui compariva un uomo dalla lunga barba in groppa a un asino.


«È Cristo che entra a Gerusalemme?»

«Gli assomiglia molto, ma in realtà è Mosè che torna in Egitto in cerca dei suoi fratelli. Il bastone che ha in mano è la bacchetta magica con cui ha compiuto i miracoli davanti al faraone.»

Christobel andò a esaminare il pannello più da vicino. «Nel rotolo di pergamena che ha in mano non c’è scritto nulla!»

«È vero. Ma per un osservatore del XII secolo sarebbe stato ovvio che l’ingresso in Egitto di Mosè profetizzava l’entrata di Gesù a Gerusalemme, avvenuta anch’essa sopra un asino.»

La ragazza annuì. «È un’immagine iniziatica?»

«Per quelli che sanno, sì. L’entrata a Gerusalemme è il ritorno a casa, così come lo era, in fondo, il ritorno in Egitto: nella tradizione arcana l’esoterismo occidentale era il risultato della fusione di idee ebraiche ed egizie. È questo che “profetizza” il ritorno di Mosè. Ma l’immagine ha anche un altro significato, che riguarda la redenzione. Mentre Cristo non ha bisogno di redenzione spirituale, l’asino che lo trasporta si trasforma al contatto con il Salvatore. Gerusalemme è il simbolo del mondo spirituale, la cui soglia può essere varcata dagli iniziati. Neppure una sciocca creatura quale è l’asino può oltrepassare le sacre porte senza essere toccata dallo spirito.»

Christobel rimase in silenzio per un poco, poi osservò: «Troppo spesso dimentichiamo che il cristianesimo è nato dall’unione di antiche credenze ebraiche ed egizie».

Concedemmo a questa acuta osservazione il silenzio che meritava, annuendo.

«Le porte di San Zeno sono l’unico esempio di arte esoterica esistente a Verona?» chiese la donna.

Soppesammo la domanda per qualche istante, sorridendo al ricordo di un altro asino, poco lontano.

«Posso farti un indovinello?»

Christobel annuì con entusiasmo. «Come gli oracoli?»

«Sì. Nell’antico battistero, che ora si chiama San Giovanni in Fonte, accanto al Duomo di Verona, c’è un fonte battesimale monolitico, di forma ottagonale. Alcune sue parti furono probabilmente scolpite da Brioloto, che, attivo fra il 1189 e il 1220, eseguì anche alcune delle sculture della facciata di San Zeno. Su ognuno degli otto lati del sacro fonte c’è un’immagine cristiana. Sul lato quasi di fronte alla porta è raffigurato Cristo che, in groppa a un asino, fa il suo ingresso a Gerusalemme… Bene, entrando in chiesa osservate l’arco sovrastante la testa dell’asino; è stato modificato, l’unico fra i quaranta del fonte battesimale. Ora io mi chiedo: perché? Perché su quell’arco Brioloto avrebbe dovuto scolpire un gatto con un topo in bocca?»

La mia domanda le aveva incuriosite e dopo qualche istante Rachel e Christobel si misero in spalla lo zaino e imboccarono via Procopio, dirigendosi verso San Giovanni. Probabilmente non ci saremmo più incontrati. Le due ragazze, seguendo il nostro consiglio, sarebbero partite qualche ora dopo per Venezia per studiare i misteri astrologici racchiusi nella facciata del Palazzo Ducale.

Mark Hedsel, L'iniziato

7 marzo 2015

La Vergine e l'unicorno




Con quali altri simboli si traveste questa dea potente?

Consideriamo il mito medievale dell’unicorno, una creatura schiva, che non osa avvicinarsi agli esseri umani, i quali gli appaiono come alieni, lontani dalla luce delle stelle. L’unicorno prova stupore davanti alle cose del mondo, eppure è attratto dalla visione di una vergine immacolata, seduta su un poggio erboso.

La vergine, bella oltre ogni dire, è protetta da ogni lato da soldati con la spada sguainata. Benchè sia vero che in segreto i soldati la concupiscono, le loro spade sono tuttavia rivolte verso l’esterno, a difesa della vergine, perché a questo compito essi si sono votati divenendo servi di Marte.

L’unicorno avanza timidamente e si inginocchia davanti alla vergine nella quale riconosce la Regina del Cielo, la Vergine Celeste ammantata di stelle, che tiene fra le braccia un fastello di grano, simbolo delle messi di cui colmerà la Terra morente. L’unicorno posa il suo singolo corno nel grembo della Iside-Vergine innamorata, compiendo così l’atto cui tutti i soldati ambivano, ma che avevano avuto timore di compiere.

Il simbolismo del mito è trasparente a tal punto che non occorre neppure analizzarlo. I soldati impugnano la spada per tenere lontano il mondo esterno, mentre all’unicorno è spuntata una spada sul capo. Quel singolo corno è figlio delle facoltà immaginative.

Non sorprenderà forse scoprire che l’unicorno, la vergine Iside nelle sue molte forme, e le guardie compaiono in molte immagini alchemiche medievali, e anche nelle stampe popolari cristiane.

Mark Hedsel, L'iniziato

4 marzo 2015

L'iniziazione di Lucio ai misteri di Iside




Nella vibrante sezione finale dell’Asino d’oro, è al tempo della Luna piena che Lucio – stanco di vivere i suoi giorni rinchiuso nella pelle dell’asino – rivolge una preghiera a Iside, la dea velata. È la preghiera che finalmente lo libererà dalla sua forma animale, restituendolo a quella umana. All’improvvisa metamorfosi Lucio si scopre nudo in mezzo a una processione in onore di Iside: il corteo avanza serpeggiando verso il luogo in cui si celebrano i riti di iniziazione ai misteri isiaci.

Apuleio intreccia dunque una parabola al suo racconto: l’asino, che era stato costretto a recitare la parte del matto, viene condotto alla luce di Iside su un piano più alto del proprio io, che gli permette di spogliarsi del suo giogo bestiale.

Lucio sente che non riuscirà mai a ringraziare a sufficienza la dea per un tale dono – «e non basterebbero neppure mille bocche e mille lingue, né un eterno instancabile flusso di parole».

Già radicato in Grecia ai primi del IV secolo a.C., il culto di Iside fu sempre il più diffuso fra quelli dedicati alle divinità egizie, come Serapide e Anubis, in onore dei quali greci e romani eressero templi. I misteri di Iside si sono tramandati nella letteratura ermetica, nei miti sulla verginità e in quelli riguardanti il figlio Horus. Alcune delle immagini egiziane che raffigurano la dea con il figlio al seno o in grembo sono quasi identiche alle immagini e statuette successive della Vergine Maria con il bambino. La cosa forse è meno sorprendente di quanto potrebbe sembrare, se si considera che i misteri isiaci sono stati una preparazione all’avvento di Gesù e dei nuovi misteri della cristianità.

Poiché Iside veniva associata al Nilo, l’acqua costituì sempre un elemento importante nel suo culto; a Pompei, nel tempio a lei dedicato, protetto per molti secoli dalla lava del Vesuvio che lo aveva ricoperto, si riconosce ancora una cisterna che veniva riempita regolarmente con le acque del Nilo. E le feste isiache più importanti in Grecia erano le Ploiaphesia, che celebravano l’inizio della navigazione, mentre a Roma si celebrava l’Isidis Navigium, festa durante la quale una nave riccamente equipaggiata e decorata veniva sospinta al largo in offerta alla dea.

D’altra parte il pavimento della chiesa, di cui la Vergine era protettrice, non si chiamava forse navata, termine che si ricollega alla navigazione? E dunque la Vergine del mondo precristiano era imparentata con l’acqua, esattamente come la Vergine dei cristiani.

Proseguendo nell’affascinante racconto della sua iniziazione, Lucio narra come, dopo essersi spogliato della sua forma oscura di asino, egli venisse introdotto ai tre gradi dei misteri isiaci, conquistando l’alto rango di sacerdote nel collegio esoterico dei pastofori.

Lucio afferma di essere diventato un adepto di Iside alla vigilia delle Ploiaphesia e descrive dettagliatamente lo svolgimento di queste feste, rivelando anche alcuni particolari dei misteri proibiti.

Ecco come racconta il momento dell’iniziazione nel tempio:

«Arrivai ai confini della morte, posai il piede sulla soglia di Proserpina».

La sua «seconda morte» è uno stadio canonico nel processo iniziatico.

Con linguaggio criptico, Lucio dice: Per omnia vectus elementa remeavi, «Poi tornai indietro, passando attraverso tutti gli elementi», esprimendo in tal modo l’idea che sia uscito dal corpo per essere quindi restituito alla pesantezza dei quattro elementi che lo compongono.

Al culmine estatico della sua esperienza, a Lucio è concesso di vedere quello che la letteratura esoterica chiama il Sole di mezzanotte. Rammenta, non senza tremore:

«A mezzanotte vidi risplendere il chiaro fulgore del sole; mi avvicinai agli dei degli inferi e a quelli del cielo, e li adorai da vicino».

Frase che ci ricorda una bella canzone dei primi anni Sessanta, Midnight Sun. La canzone aveva un so che di misterico: la cantava June Christy e faceva parte di un suo album, Something Cool, inciso intorno al 1959. Questa cantante aveva in repertorio diversi pezzi con chiare allusioni arcane, e l’esecuzione faceva pensare che ne conoscesse il significato riposto.

Questo viaggio nel mondo spirituale sfiora il livello più alto dell’iniziazione, eppure Lucio confessa che in quell’occasione gli dei gli concessero altre grandi visioni e rivelazioni di cui non può parlare ai profani.

Aveva forse sollevato il velo di Iside?

Quel velo ha tanto l’aria di essere un’invenzione letteraria: definire Iside velata era un modo simbolico per rappresentare quella dea dei misteri, custode di segreti che non tutti potevano vedere e che nessuno doveva divulgare. Soltanto i suoi adepti potevano sollevare il velo. Ma anche il velo tanto famoso sembra sia nato da uno stravolgimento della parola greca peplos, che era incisa sulla statua della dea e significava «veste». Il monito iniziale aveva connotazioni anche sessuali, com’era prevedibile trattandosi di una dea bellissima: nessun uomo poteva guardare impunemente la sua nudità. E il Sole di mezzanotte non potrebbe essere un simbolo di Cristo – il nuovo dio del Sole Horus – allora invisibile a tutti tranne che agli occhi degli iniziati?

Mark Hedsel, L’iniziato

19 dicembre 2014

Il significato arcano della Festa dell'asino




«Nel suo libro sul segreto delle cattedrali, Fulcanelli osserva che l’asino della Festa dei pazzi aveva un tempo percorso le vie di Gerusalemme. Dice che aveva calpestato quelle strade con il suo sabot. So che sabot significa sia zoccolo dell’asino sia calzatura di legno, ma mi chiedo se la parola non abbia qualche significato arcano che faccia lume sulla Festa dei pazzi.»

Il maestro annuì. «Sì, sabot è una parola molto interessante. Ma per comprenderne il significato riposto occorre conoscere anche i segreti nascosti in quella replica pagana dell’entrata dell’asino a Gerusalemme che è la Festa dei pazzi, e il significato arcano dello stesso asino. In questa celebrazione anarchica, chiamata a volte anche Festa dell’asino, l’animale veniva sospinto oltre il portale della chiesa o della cattedrale, dentro la navata, in una oscena imitazione dell’ingresso a Gerusalemme (la navata che i pazzi in maschera percorrono è imparentata con la parola nave, associazione che non sfuggì all’autore della Narranschiff, La nave dei folli). Nelle preghiere blasfeme che seguivano, i presenti anziché dire “Amen”, ragliavano. Ciò potrebbe sembrare un sacrilegio, anche nel contesto della Festa dei pazzi in cui pure il dileggio e la licenziosità erano all’ordine del giorno. Ma noi dobbiamo porci un’altra domanda: quel sacrilegio aveva un significato arcano?

«In ebraico l’asino è hamor, e athon l’asina. Nella Bibbia, quando Zaccaria profetizza che il Signore arriverà in groppa a un asino – profezia che si compirà con l’entrata di Gesù a Gerusalemme – egli usa la parola athon. L’ingresso di Gesù in groppa a un asino viene di solito interpretato come un segno di umiltà, della riluttanza di Cristo a presentarsi come re. Ma l’episodio può essere visto anche diversamente. Poiché in Palestina era proibito andare a cavallo (un divieto infranto, a quanto pare, da Salomone), l’asino godeva di una considerazione diversa da quella attuale: non era affatto una creatura degradante, dal momento che se ne servivano anche i re e i ricchi (sia uomini sia donne), anzi, il termine “asina” nella forma plurale athona era spesso usato per indicare i potenti e i danarosi. È facile capire perché gli alchimisti (molti dei quali conoscevano l’ebraico, indispensabile per praticare la loro arte) si siano così entusiasmati alla storia dell’asino: nella loro Lingua Verde athona assomigliava troppo ad atanor, per non risvegliare il loro interesse. L’atanor era un forno ad alimentazione continua che gli alchimisti usavano per mantenere costante la temperatura: non sorprende quindi di vedere, in opere di alchimia, immagini alchemiche di Saturno o di “re” solari (che simboleggiano i gradi iniziatici) situate sopra i forni.

«Gli studiosi sono sempre stati in disaccordo sull’etimologia di “Gerusalemme”, ma nella cabala, la legge esoterica degli ebrei, essa significa “fondamento di pace”. Questa interpretazione ricorda l’importanza che veniva attribuita al tempio di Salomone, il quale si ritiene sorgesse in origine in questa città. L’asino, che durante il Festum Fatuorum oltrepassava con il suo cavaliere la soglia della chiesa o della cattedrale, entrava in un certo senso a Gerusalemme, ossia nella pace. Ma quest’asino, che porta, per così dire, in groppa un’imitazione di Cristo, ha gli zoccoli, che in francese si chiamano sabots. Fulcanelli ha perfettamente ragione nel collegare sabot sia con Saba sia con Caba. Torneremo sulla prima parola tra un momento, per ora osserviamo che Caba rinvia al mistero della Cabala, la tradizione esoterica degli ebrei.

«La terra di Saba è in realtà la terra dei sabei. Nell’antica Persia i sabei erano famosi maghi-astrologi, così potenti, che i maghi medievali usavano il loro nome come parola magica: e infatti “sabei” compare spesso sui sigilli e negli incantesimi. 

L’idea del “potere magico” del nome “sabei” è filtrata anche nella mitologia medievale, tant’è vero che nella Legenda aurea, la regina di Saba, grazie al suo potere magico di chiaroveggenza, riconosce in una tavola di legno, gettata come passerella su un fiume, la Croce di Cristo. Ma la cosa che qui ci interessa è che i sabei erano maghi famosi, e che la parola francese Saba con cui vengono indicati è molto vicina a sabots, “zoccoli”.

«Ma c’è dell’altro: Saba è molto simile a sabba, termine con cui si indicavano i convegni delle streghe: ancora oggi in francese faire un sabbat significa “fare un fracasso infernale”. Espressioni come queste ci avvicinano all’esuberanza sfrenata che doveva caratterizzare la Festa dei pazzi.

«Siamo così arrivati a uno dei grandi segreti del Medioevo. La parodia della Chiesa – espressa nella pietra attraverso particolari come l’asino in abito talare, o in modo più effimero nelle rappresentazioni dell’annuale Festa dei pazzi – andava ben al di là della farsa. Alcuni iniziati, nel silenzio delle loro scuole, avevano da tempo capito che la Chiesa, abbandonato il suo fine esoterico, era diventata un organismo burocratico simile all’Impero romano. Furono questi iniziati a inventare, o comunque a ispirare, simboli segreti come quello dell’asino per attaccare una Chiesa troppo compiacente. In questo modo il frastuono del sabba veniva portato oltre i sacri portali della Gerusalemme simbolica, che avrebbe dovuto essere un luogo di pace, e si comunicava alla Chiesa che il suo andazzo non era passato inosservato. La domanda che questa festa anarchica poneva era: chi è il Matto? L’asino che porta Cristo oppure la Chiesa che ha cessato di portare Cristo?

«Tra i documenti iconografici più interessanti del periodo in cui la Festa dei pazzi era così popolare si trovano le filigrane riproducenti la figura dell’asino: in mezzo alle grandi orecchie dell’animale è inserita una stella a cinque punte. Harold Bayley, studioso della materia, sostiene che questi segni appartengono alla lingua occulta di gruppi esoterici perseguitati dalla Chiesa: essi sono, dice, un’immagine dell’asino glorificato, iniziato, ossia dell’asino che ha riportato Mosè in Egitto e Cristo a Gerusalemme. 

«E dunque anche le filigrane indicano l’esistenza di una via iniziatica asinina: è la Via del Matto, e a guidarla è una stella.»

Mark Hedsel, L'iniziato