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2 agosto 2015

Il mistero del sale




In alchimia il sale è uno dei Tre Principi, presenti sia nel cosmo sia nell’uomo: una triade mistica, composta dal sale, dal mercurio e dallo zolfo. Benché si presenti come una polvere bianca, inerte, il sale è uno dei grandi misteri e simboli dell’iniziazione. Nella tradizione alchemica esso era l’emblema di un patto sacro che non poteva mai essere rescisso, simile a quello che il neofita stringeva con la sua scuola o il suo maestro. «Il patto di sale» di cui parla l’Antico Testamento potrebbe avere un significato diverso da quello che gli viene di solito attribuito. Il Nuovo Testamento è meno evasivo al proposito: in Matteo, infatti, «sale della terra» sono gli eletti, ossia gli iniziati e non, come si tende oggi a pensare, quanti sono poco più che semplici contadini. Nei secoli lontani gli eletti sedevano al posto d’onore, «più in alto del sale», perché avevano conquistato il sale che avevano dentro di sé. Come si spiegherebbe altrimenti tutta l’importanza che nei convivi medievali veniva attribuita al salinum, ossia alla saliera?

Gli studiosi, naturalmente, potrebbero obiettare che le nostre associazioni linguistiche intorno alla parola sal contengono tracce di etimologie di origine diversa. Può anche darsi, però resta il fatto che già nei primi testi latini a noi pervenuti sal, oltre a denotare il comune sale da cucina, aveva il significato di «astuzia» e «arguzia». Un bravo buffone era sempre «un matto con del sale in zucca» e veniva remunerato per i suoi meriti, dunque non era affatto pazzo nel senso comune del termine.

Paracelso, il grande maestro del Rinascimento italiano, descrive in vari suoi testi alchemici la formula per realizzare l’acqua di sale, espressione con cui indica, in modo appena velato, l’iniziazione. Egli consiglia di «distillare un numero sufficiente di volte finché il sale non si distaccherà». Non ci vorrà molto, dice Paracelso,  perché il sale «non penetra nella natura interiore». Quando il sale se ne sarà andato, «allora nel liquido si troverà l’oro». Questa descrizione è quasi un sommario del processo iniziatico: la rimozione della scorza, che non penetra nella natura interiore, e il recupero sacro, nascosto all’interno. Analizzando la formula, ci si accorge che essa non produce, né per Paracelso né per noi, l’acqua di sale, bensì un’acqua desalinizzata, ossia un iniziato che non può più piangere. «Prima che gli occhi possano vedere, devono essere incapaci di lacrime» dice il testo arcano.

Gli alchimisti ponevano talora a emblema del sale il più semplice di tutti i sigilli: un minuscolo quadrato  o un piccolo rettangolo. Con quelle quattro linee che descrivono uno spazio vuoto – come lo spazio fra l’Aria e l’Acqua – intendevano delineare i misteri dei quattro elementi o disegnare una bara? Il reverendo Brewer, un colto collezionista di idee curiose, totalmente ignaro di esoterismo, ci ricorda la consuetudine, tuttora esistente, di porre una manciata di sale nella cassa del morto.

C’è forse un nesso fra il sale e la morte? Un altro sigillo del sale – usato con frequenza nei gruppi alchemici rosacrociani – era un cerchio tagliato a metà da una linea orizzontale Θ . Quel sigillo deriva dalla theta maiuscola di Thanatos, che in greco significa «morte».

In numerosi testi alchemici il sale rappresenta il processo mentale, che è un processo di morte. Il sale è il residuo dell’attività spirituale che avviene nella nostra testa: come nelle triade alchemica, è la scoria che resta quando la vita è volata via, è il cranio, il caput mortuum, la polvere bianca residua dopo l’estrazione dell’oro. È la cenere del pensiero.

Quando la testa – o la sua attività spirituale che chiamiamo mente – raggiunge il punto in cui non è più in grado di capire, in cui l’ordine dell’universo sembra frantumarsi, allora produce lacrime salate.

Ma perché mai il pensiero – quel processo che ha prodotto la nostra tanto decantata civiltà di superficiale razionalismo – dovrebbe essere associato alla morte nei circoli arcani? Noi moderni non dovremmo invece sostenere che il pensiero è la nostra salvezza, la strada che ci condurrà alla terra promessa? Qualsiasi iniziato che abbia un granello di sale, inutile dirlo, contesterebbe questa interpretazione. L’autore anonimo di A discourse of Fire and Salt («Discorso del fuoco e del sale») spiega chiaramente che fra il sale e il fuoco avviene uno scambio mistico. Ci sono due sali, afferma questo adepto, l’uno nato dall’attività del fuoco e l’altro il residuo rimasto quando le fiamme si spengono, che è a sua volta «un fuoco potenziale». In questa perpetua interazione fra fuoco e sale che sta alla base del mondo fenomenico il sale rappresenta lo stato inerziale della morte. Nessun alchimista tuttavia sosterrebbe mai che una cosa può morire nel senso di essere esclusa per sempre dalla vita. La morte è un interludio fra una vita e l’altra.

Un tempo, però, esisteva il sale del vero pensiero, che non era neppure sfiorato dalla contaminazione della morte. Allora, anche le invenzioni delle menti più raffinate, come quelle dei poeti romani, erano saporite come il sale, erano salsae, ossia mordaci e facete. Di certo i versi sgorgavano di getto dalla mente dei loro autori; in latino salire significa «saltare», «guizzare fuori», da cui la parola saltatore: i latini sapevano che dalla sfera spirituale le idee penetravano d’un balzo nella mente dei poeti. Una parola dal suono così simile al nome di quel semplice condimento quotidiano non può che suggerirci qualche profondo significato riposto. Sono molti i misteri del mondo antico che la parola sale richiama: c’erano, per esempio, i Salii, quei «saltatori» splendidamente vestiti, danzatori dell’aria, che costituivano uno dei tanti collegi sacerdotali romani. Di loro sappiamo soltanto che cantavano e parlavano in una lingua incomprensibile, che erano votati al culto di Marte e formavano una confraternita esoterica. La lingua incomprensibile che parlavano era la Lingua degli Uccelli – ossia il linguaggio segreto dell’esoterismo – e i loro «salti» erano una forma di danza sacra.

Mark Hedsel, L'iniziato

18 luglio 2015

La danza della gru




Anche la passione che ho rivelato a te e agli altri nella danza in tondo, la chiamerei un mistero.
(Cristo a Giovanni dopo la Passione, Atti di Giovanni)

Raccontano i miti greci come Teseo, dopo aver ucciso il Minotauro a Creta, facesse vela verso l’isola sacra di Delo, portando con sé Arianna e alcuni dei giovani e delle vergini ateniesi che aveva salvato. Raggiunta la terra ferma, Teseo e i compagni si diedero a una danza che riprendeva nei suoi movimenti le intricata sinuosità del labirinto da cui erano fuggiti. Quella danza era un’espressione di gioia traboccante, una celebrazione della fuga o il segno di un substrato esoterico legato al mito del labirinto?

Plutarco che la descrive, la chiama «danza della gru», perché, dicono i critici, i danzatori ne imitano i movimenti. Eppure la danza labirintica di cui Plutarco parla non assomiglia affatto a quella di un uccello.

Plutarco era, lo dice egli stesso, un iniziato e pertanto era abituato a celare le proprie verità ricorrendo alla Lingua Verde, per sviare i non adepti. La parola che egli usa per definire la danza è geranos: che essa non abbia qualche altro significato, sfuggito agli interpreti? È un’ipotesi plausibile, dal momento che in greco geraneion indicava una sostanza alchemica.

In realtà non è necessario setacciare i documenti dell’arte spagirica per trovare un significato più idoneo alla «danza della gru»: il termine greco, infatti, oltre a denotare quella che gli ornitologi chiamano la Gru cinerea, indicava anche la comune gru, la macchina usata per sollevare i pesi, una leva meccanica. I danzatori di Delo, che festeggiavano la vittoria sul Minotauro, ballavano forse con movenze tali da essere sollevati al di fuori del corpo fisico, verso le stelle?

È una domanda tutt’altro che peregrina, poiché proprio questo è lo scopo precipuo di alcune danze rituali, come indicano chiaramente i volteggi dei dervisci sufi, che ruotano in tondo per diventare tutt’uno con Dio e conquistare la quiete interiore. In Italia, esistevano scuole esoteriche di danza molto prima che i sufi introducessero le loro evoluzioni.

I disegni complessi tracciati dal vero danzatore non saranno per caso lo specchio del movimento cosmico, di quella che gli antichi bramini indiani chiamavano la danza di Shiva, divinità che rappresentava le forze generatrici nelle religioni vediche? I discepoli dell’iniziato Pitagora consideravano la danza un tentativo di riprodurre il moto dei pianeti e delle stelle, attribuendole uno scopo che è identico a quello che si propone la vera meditazione.

Un documento, definito «il più raro dei manoscritti occulti», descrive il viaggio che un neofita, librandosi al di fuori dal corpo, compie nello spazio: racconta dunque costui di avere goduto per un istante del dono di innalzarsi sulla superficie della Terra. Dapprima egli viene sollevato da una guida invisibile e sale così in alto che il nostro pianeta gli appare come una vaga nuvola.

«Fui portato» ricorda «a un’altezza immensa. La mia guida invisibile mi abbandonò e io discesi di nuovo. A lungo rotolai nello spazio…» Poi la guida lo solleva ancora, conducendolo a distanze incommensurabili. «Ho visto globi volteggiare intorno a me e terre gravitare verso i miei piedi…»

Nonostante la paura che lo prende, l’esperienza che questo neofita racconta non è tanto una prova quanto un preludio di quello che ora viene chiamato viaggio astrale, un viaggio nel mondo sidereo dei regni spirituali.

Le descrizioni di viaggi astrali, su fino alle stelle, non sono affatto una rarità nella letteratura arcana. Ma in questo innalzarsi, dietro una guida invisibile, non potrebbe forse esservi la conferma del significato esoterico che abbiamo suggerito per la «danza della gru»? Narrando il suo viaggio astrale, l’autore, che potrebbe essere il conte di Saint-Germain, era sicuramente convinto di raccontare un episodio della danza descritta da Plutarco. Ogni capitolo di questo importante libro è preceduto da un’immagine esoterica. Quella relativa al racconto dell’innalzamento nei cieli contiene tre immagini e quattro blocchi di scritte in un codice segreto. Uno dei tre oggetti è un’antica ara, su cui arde una fiamma ascensionale. Un secondo è un candeliere con un’unica candela, la cui base è formata da serpenti di bronzo intrecciati. Il terzo è una gru in volo, con le zampe e le ali nere, il corpo argenteo, la testa rossa e il collo dorato. È dunque un uccello alchemico: il nero rappresenta Saturno, l’argento è la Luna, il rosso Marte e l’oro è il Sole. Come la fiamma sull’altare e la candela sollevano verso l’alto l’anima della luce, altrettanto farà la gru.

La nostra tesi è che chi entra in uno stato di meditazione profonda, sia attraverso l’immobilità sia attraverso la danza, viene sollevato verso il mondo spirituale da forze invisibili, esattamente come fa una gru. Viviamo in un pianeta che è in perenne danza. La sua coreografia è ancora segreta, anche per gli astronomi, perché se è vero che la Terra si muove in circolo intorno al Sole, è anche vero che oscilla, e che in termini cosmici il suo centro solare è ben lontano dall’essere fisso. Chi saprebbe descrivere con precisione la vera traiettoria di un movimento così complesso? Noi stessi facciamo parte del cosmo, della Terra, e di questa traiettoria e danza cosmica. Quanti cercano dentro di sé la quiete per raggiungere il regno dello spirito sono già in movimento, per il fatto stesso di dimorare sulla Terra. Quali che siano le motivazioni di chi medita, ogni meditazione avviene nella danza.

La sostanza di cui è fatto il mondo è un’immagine riflessa sulla superficie immobile di uno stagno. Senza la superficie, in cui acqua e aria sembrano incontrarsi, non ci sarebbe alcun riflesso, e il riflesso è l’unica cosa che esiste. La speranza più grande per l’anima che si evolve fra tanta illusione sta nella meditazione, nel fortificare la mente. Questa fissità nel bel mezzo del cerchio di fuoco roteante in cui danza il dio Shiva è il silenzio davanti al pulsare del cuore della natura. La speranza, come ha detto T.S. Eliot, sta «nel punto immobile del mondo che gira».

Il silenzio interiore che nasce dalla meditazione è minacciato dall’interno e dall’esterno. A volte i pericoli sono come onde lievi che lambiscono la riva; a volte sono furibondi marosi che si schiantano contro il litorale. Come la persona retta che ha commesso una cattiva azione ha periodici sensi di colpa ogni volta che riaffiorano i ricordi, così tutti gli esseri umani immersi nella vita sono soggetti ad attacchi di karma negativo. Sia le aggressioni interiori, sia quelle esteriori, che i saggi orientali chiamano vasana, nascono dal karma passato. I vasana affiorano alla coscienza, uno dopo l’altro: sono, dice la letteratura sanscrita, come onde sulla sabbia. I primi monaci cristiani non erano poetici come gli yogin indiani e propendevano piuttosto per immagini teriomorfe: le onde del mare erano ai loro occhi animali e demoni mostruosi che distraevano la mente con fantasie deliranti, maschere dietro cui si nascondevano i sette peccati capitali.

Qual è la natura di questa danza della gru, danza della vita, in cui siamo lambiti da onde karmiche? La danza esterna – sia che ci innalzi fino ai cieli, sia che ci faccia semplicemente roteare nello spazio – dipende in realtà da un’altra danza: quella del sangue. È la circolazione sanguigna che stabilisce il ritmo della nostra danza intima: è un mare interno, le cui onde sono anch’esse simili a vasana e misurano inesorabilmente il flusso e il riflusso degli imperativi karmici.

Mark Hedsel, L'iniziato

4 marzo 2015

L'iniziazione di Lucio ai misteri di Iside




Nella vibrante sezione finale dell’Asino d’oro, è al tempo della Luna piena che Lucio – stanco di vivere i suoi giorni rinchiuso nella pelle dell’asino – rivolge una preghiera a Iside, la dea velata. È la preghiera che finalmente lo libererà dalla sua forma animale, restituendolo a quella umana. All’improvvisa metamorfosi Lucio si scopre nudo in mezzo a una processione in onore di Iside: il corteo avanza serpeggiando verso il luogo in cui si celebrano i riti di iniziazione ai misteri isiaci.

Apuleio intreccia dunque una parabola al suo racconto: l’asino, che era stato costretto a recitare la parte del matto, viene condotto alla luce di Iside su un piano più alto del proprio io, che gli permette di spogliarsi del suo giogo bestiale.

Lucio sente che non riuscirà mai a ringraziare a sufficienza la dea per un tale dono – «e non basterebbero neppure mille bocche e mille lingue, né un eterno instancabile flusso di parole».

Già radicato in Grecia ai primi del IV secolo a.C., il culto di Iside fu sempre il più diffuso fra quelli dedicati alle divinità egizie, come Serapide e Anubis, in onore dei quali greci e romani eressero templi. I misteri di Iside si sono tramandati nella letteratura ermetica, nei miti sulla verginità e in quelli riguardanti il figlio Horus. Alcune delle immagini egiziane che raffigurano la dea con il figlio al seno o in grembo sono quasi identiche alle immagini e statuette successive della Vergine Maria con il bambino. La cosa forse è meno sorprendente di quanto potrebbe sembrare, se si considera che i misteri isiaci sono stati una preparazione all’avvento di Gesù e dei nuovi misteri della cristianità.

Poiché Iside veniva associata al Nilo, l’acqua costituì sempre un elemento importante nel suo culto; a Pompei, nel tempio a lei dedicato, protetto per molti secoli dalla lava del Vesuvio che lo aveva ricoperto, si riconosce ancora una cisterna che veniva riempita regolarmente con le acque del Nilo. E le feste isiache più importanti in Grecia erano le Ploiaphesia, che celebravano l’inizio della navigazione, mentre a Roma si celebrava l’Isidis Navigium, festa durante la quale una nave riccamente equipaggiata e decorata veniva sospinta al largo in offerta alla dea.

D’altra parte il pavimento della chiesa, di cui la Vergine era protettrice, non si chiamava forse navata, termine che si ricollega alla navigazione? E dunque la Vergine del mondo precristiano era imparentata con l’acqua, esattamente come la Vergine dei cristiani.

Proseguendo nell’affascinante racconto della sua iniziazione, Lucio narra come, dopo essersi spogliato della sua forma oscura di asino, egli venisse introdotto ai tre gradi dei misteri isiaci, conquistando l’alto rango di sacerdote nel collegio esoterico dei pastofori.

Lucio afferma di essere diventato un adepto di Iside alla vigilia delle Ploiaphesia e descrive dettagliatamente lo svolgimento di queste feste, rivelando anche alcuni particolari dei misteri proibiti.

Ecco come racconta il momento dell’iniziazione nel tempio:

«Arrivai ai confini della morte, posai il piede sulla soglia di Proserpina».

La sua «seconda morte» è uno stadio canonico nel processo iniziatico.

Con linguaggio criptico, Lucio dice: Per omnia vectus elementa remeavi, «Poi tornai indietro, passando attraverso tutti gli elementi», esprimendo in tal modo l’idea che sia uscito dal corpo per essere quindi restituito alla pesantezza dei quattro elementi che lo compongono.

Al culmine estatico della sua esperienza, a Lucio è concesso di vedere quello che la letteratura esoterica chiama il Sole di mezzanotte. Rammenta, non senza tremore:

«A mezzanotte vidi risplendere il chiaro fulgore del sole; mi avvicinai agli dei degli inferi e a quelli del cielo, e li adorai da vicino».

Frase che ci ricorda una bella canzone dei primi anni Sessanta, Midnight Sun. La canzone aveva un so che di misterico: la cantava June Christy e faceva parte di un suo album, Something Cool, inciso intorno al 1959. Questa cantante aveva in repertorio diversi pezzi con chiare allusioni arcane, e l’esecuzione faceva pensare che ne conoscesse il significato riposto.

Questo viaggio nel mondo spirituale sfiora il livello più alto dell’iniziazione, eppure Lucio confessa che in quell’occasione gli dei gli concessero altre grandi visioni e rivelazioni di cui non può parlare ai profani.

Aveva forse sollevato il velo di Iside?

Quel velo ha tanto l’aria di essere un’invenzione letteraria: definire Iside velata era un modo simbolico per rappresentare quella dea dei misteri, custode di segreti che non tutti potevano vedere e che nessuno doveva divulgare. Soltanto i suoi adepti potevano sollevare il velo. Ma anche il velo tanto famoso sembra sia nato da uno stravolgimento della parola greca peplos, che era incisa sulla statua della dea e significava «veste». Il monito iniziale aveva connotazioni anche sessuali, com’era prevedibile trattandosi di una dea bellissima: nessun uomo poteva guardare impunemente la sua nudità. E il Sole di mezzanotte non potrebbe essere un simbolo di Cristo – il nuovo dio del Sole Horus – allora invisibile a tutti tranne che agli occhi degli iniziati?

Mark Hedsel, L’iniziato

24 dicembre 2014

I segreti dell'arte profana nelle chiese medievali




Il maestro era già entrato. Lo seguirono uno a uno tutti gli allievi del gruppo. Noi fummo tra i primi e andammo a sederci in terza fila: né troppo lontano, né troppo vicino. Sul tavolino accanto alla sedia del maestro c’era un libro. Il maestro doveva essersi accorto che lo sbirciavamo, allungando il collo per leggerne il titolo.

«Witkowski» disse, prendendo in mano il volume e tambureggiando con le dita sulla copertina. «Il viaggio illustrato di Witkowski attraverso l’arte pagana nelle chiese medievali.»

Non disse altro finché il resto del gruppo non si fu seduto. Quando si fece silenzio, egli indicò il libro con un gesto della mano.

«Il grande alchimista Fulcanelli – al quale ho accennato più volte – fu affascinato da questo libro, e già solo questo sarebbe un buon motivo per guardarne le immagini. È sicuramente un volume molto utile per chi si interessa di sapere arcano. Chiunque compia un viaggio fra le chiese e le cattedrali di Francia dovrebbe portarlo con sé. Per essere un libro che si occupa di monumenti cristiani, è una guida all’arte pagana davvero originale.»

Intanto che parlava, il maestro cominciò a sfogliare il vecchio volume, con il volto raggiante di piacere.

«Adoro queste illustrazioni. Semplici incisioni, ma così stimolanti. Alcune immagini sono la prova che l’arte cristiana è stata completamente travisata dai moderni. Qualcuno oggi potrebbe pensare che la Festa dei pazzi, con tutta la licenziosità e il caos che la accompagnavano, costituisse un’eccezione, un ritorno a un’antica festività romana, un semplice imbarazzo per la Chiesa, un’isola inspiegabile di celebrazioni pagane in mezzo a un continente tutto cristiano. Ma non è affatto così. Le immagini profane che Witkowski ha raccolto nelle chiese e cattedrali d’Europa dimostrano come quello spirito che animava la festa fosse vivissimo nel Medioevo. La Festa dell’asino sgorgava da una forza vitale possente – una gioia primigenia – che è stata quasi interamente stravolta nell’era moderna, e che tuttavia sopravvive ancora, almeno in parte, nell’arte.

«Gli antichi si accostavano all’arte in modo molto diverso dal nostro. Il loro approccio non era affatto intellettuale. Capivano, con una profondità spirituale per noi quasi incomprensibile, che la vera arte spalancava le porte del mondo spirituale. Questo lo sentono ancora oggi le persone con una vita spirituale profonda: si racconta che Picasso, nel suo studio, tenesse coperti con un telo alcuni dei grandi capolavori da lui acquistati, perché, diceva, erano troppo potenti. È questo il modo giusto di accostarsi all’arte. Le nostre pinacoteche e i nostri musei dovrebbero essere luoghi di meditazione e non luoghi di incontri chiassosi, perché l’arte vera è la sentinella del mondo superiore.»

Marilyn, seduta in prima fila, domandò: «Se l’arte, come lei afferma, riguarda le nostre emozioni più che l’intelletto, ciò significa che la capacità di capire l’arte va ricondotta alle nostre facoltà astrali?»

«Sì, è così. La domanda che vi dovete porre è: quale parte di voi entra in gioco quando osservate un’opera d’arte? Se guarderete soltanto con l’occhio fisico, non vedrete niente di prezioso. Forse riesco a spiegarmi meglio con la musica. Se ascoltate un capolavoro – per esempio il Triplo concerto di Beethoven – soltanto con l’orecchio, non sentirete quasi nulla. Dovete ascoltarlo con tutto il corpo. Il corpo deve restare perfettamente immobile, per farsi cassa di risonanza del corpo eterico e di quello astrale. Soltanto quando i tre corpi – fisico, eterico e astrale – si muovono all’unisono si comincia a godere della musica. La stessa regola vale per l’arte visiva. Ma quando si contempla un quadro è un po’ più difficile dimenticare il corpo di quando si ascolta la musica.»

Marilyn intervenne di nuovo: «Questo approccio meditativo è connesso con l’esperienza estetica?»

«Sì. È anzi la fonte di ogni vera percezione della bellezza. L’esperienza estetica comporta una separazione nell’anima, in un certo senso una scissione, il distacco temporaneo dell’astrale dall’eterico. È un’esperienza di natura interamente spirituale, che nasce dal contatto con gli elementi segreti contenuti nelle opere d’arte. L’esoterista Goethe, all’inizio del XIX secolo, era consapevole di questo elemento magico insito nell’arte: ecco perché sosteneva che non si dovrebbe mai parlare di un quadro o di una scultura se non avendoli davanti agli occhi. Se l’opera d’arte è assente, l’esperienza estetica non può avvenire, si può parlare soltanto della sua parte morta, ossia dell’immagine fisica, senza coglierne l’interazione con il piano eterico e quello astrale. È questa una delle ragioni per cui la storia dell’arte è così esanime e priva di senso: perché si occupa dell’aspetto fisico delle opere artistiche e non di quelli eterico e astrale, che sono vivi e ne costituiscono l’aspetto veramente magico.»

Maria, una ragazza molto carina che era seduta qualche fila dietro di noi, osservò: «Lei ha parlato più volte di schermi occulti, ma non sono certa di avere ben capito che cosa questo significhi in campo artistico. So che cosa sono gli schermi occulti, ma non vedo quale uso se ne possa fare in arte. Dopo tutto, un’opera d’arte la vediamo per quello che è. Non capisco come quello che vediamo possa costituire anche la maschera di qualcosa che non si vede.»

«Cercherò di chiarirti le idee mostrandoti un paio di esempi di grande scultura medievale.»

Il maestro prese il libro di Witkowski e l’aprì su due pagine che contenevano tre illustrazioni.

«Passatevele e osservatele mentre parlo.»

Passò il libro a una giovane donna seduta in prima fila.


«La xilografia a sinistra rappresenta una composizione scultorea della chiesa medievale di St-Pierre a Moissac, nel Sud della Francia. Vi si riconosce una peccatrice, nuda, aggredita da creature che sembrano essere rospi e da serpenti. Un demonio la tiene per un braccio. L’immagine di destra proviene dallo stesso luogo e rappresenta due peccatori con sulle spalle due demoni.

«Un osservatore distratto potrebbe scambiare queste immagini per allegorie di peccatori all’inferno o in un purgatorio, quasi esortazioni visive a non cadere nel peccato.

«Una cosa deve essere subito chiara: gli scultori non intendevano raffigurare, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la vita all’inferno o al purgatorio. Le persone che vedete sono esseri umani normali, vivi, sono comuni peccatori. La donna aggredita dai serpenti è dissoluta, ecco perché i rospi mostruosi si interessano tanto alle sue parti intime e ai suoi seni, e perché il demone che l’afferra tiene il serpente in una posa così inequivocabilmente allusiva.

«I due uomini con i demoni sulle spalle sono un’allegoria del peccato dell’avarizia: quello seduto, che tiene strette le borse con il denaro, è un avaro, che rifiuta l’elemosina al mendicante.

«Ma i due non sono all’inferno: entrambi sono ritratti in forma eterica e astrale. L’artista li denuda, ce li mostra come li vedrebbe chi possiede in alto grado il dono della chiaroveggenza ed è capace di percepire sui piani spirituali. I due uomini sono forme simboliche del corpo eterico e di quello astrale: un vero veggente riuscirebbe a vedere i rettili e i demoni odiosi che si sono impossessati di loro.

«La donna nuda non è all’inferno. È raffigurata come un essere vivo, benché quello scolpito non sia il suo corpo fisico. La sua anima, a causa della sua predisposizione a cadere in un certo tipo di peccato, è divorata continuamente da creature mostruose. Il suo corpo fisico può essere bello e attraente quanto si vuole, ma il suo corpo eterico – in conseguenza del peccato – è ottenebrato dai demoni che la divorano. Tuttavia l’immagine, lo ribadisco, non raffigura un peccatore all’inferno, bensì un corpo eterico malato qui, sulla Terra. È un corpo che ha un bisogno disperato di purificazione, di guarigione. Guardandolo, si capisce perché Paracelso chiamasse l’eterico “il corpo dei veleni”.

«La donna è nuda forse perché così il suo peccato, che è la lussuria, traspare con più evidenza. Ma la sua nudità, in così netto contrasto con le figure vestite degli uomini, ha anche un altro significato: indica che si tratta soltanto del suo corpo eterico, il corpo che gli artisti di Moissac avrebbero chiamato ens veneni, o vegetabilis. La donna ha le braccia alzate e con le mani si afferra i capelli: questo è il gesto dell’anima eterica. È lo stesso che compare nelle immagini cristiane dipinte o graffite sui muri delle catacombe a Roma, è l’atteggiamento chiamato “orans”, della preghiera, alla cui origine c’è in realtà il geroglifico egizio ka.

«Tutti questi indizi non lasciano dubbi sul fatto che la peccatrice sia una persona viva, e noi abbiamo il privilegio di vedere lo stato del suo corpo eterico. Ecco, dunque, Maria, un esempio di schermo occulto.

«Adesso osserva la seconda xilografia della scultura di Moissac. Un veggente capirebbe subito che il mendicante si avvicina all’avaro sul piano astrale, e che a dirigere la transazione sono i demoni, i quali, in un certo senso, aggirano l’ego degli uomini. Si tratta di una transazione demoniaca, non umana. I demoni stanno in spalla ai due uomini, a dimostrazione che se ne sono impossessati. Non dimenticare che possessione deriva da una parola latina, che significa letteralmente “star seduto su qualcosa”. Quando, recitando il Padre Nostro, preghiamo Dio di non indurci in tentazione, chiediamo di trovare dentro il nostro ego la forza di resistere alle tenebre, che i demoni calano costantemente sul nostro corpo astrale.

«Il mendicante e l’avaro, al contrario della donna dai facili costumi, sono vestiti. Questo in parte può dipendere dal fatto che lo scultore intendeva esprimere il rango sociale di ciascuno dei due: il primo è avvolto in panni laceri e ha una gamba nuda, mentre l’uomo seduto indossa abiti che ne testimoniano la ricchezza. Ma c’è anche un’altra ragione per cui le due figure sono vestite: gli indumenti indicano che sono rappresentate come se fossero a un livello successivo rispetto a quello eterico, ossia sul piano astrale, che a quell’epoca si chiamava animalis o ens astrale.

«Quegli abiti costituiscono di certo una forma di travestimento: nessuno dei due infatti ha le scarpe. In base alla simbologia arcana, questo significa che non sono sulla Terra materiale. L’elemento più “terreno” di questa immagine è la pesante borsa di denaro: è legata al collo dell’avaro, come una punizione, e pesa sulla sua anima, tirandola verso il basso. La sua funzione è la stessa del fagotto che il Matto dei tarocchi porta in spalla.

«I demoni che si sono “impossessati” dei due uomini sono esseri astrali: le ali di cui è dotato quello di sinistra indicano che può volare sul piano astrale. Le corna dell’altro, a forma di falce, ci ricordano il legame dei demoni con la Luna. Ma come la donna non sa che il suo corpo eterico è divorato dai mostri, così l’avaro ignora che il suo corpo astrale è oppresso dal denaro e dal demone che lo serra alla gola con le ginocchia. Non si tratta tanto di simbolismo, quanto di ciò che può esser percepito sul piano spirituale da chi ha occhi per vedere.»

Prese di nuovo il libro.

«In questo splendido volume di Witkowski c’è un’altra immagine che costituisce una sorta di omelia sulla natura dell’esoterismo e degli schermi occulti.


«A pagina 181…» sfogliò velocemente e poi porse di nuovo il libro aperto a un allievo seduto in prima fila perché guardasse la figura e quindi la passasse agli altri «troverete una xilografia molto interessante. È la riproduzione di una miniatura – conservata alla Bibliothèque Nationale Française – in cui è rappresentata la celebrazione di un battesimo. Alcuni studiosi affermano trattarsi di San Giovanni che battezza Maria Maddalena, ma la cosa in sé non ha grande importanza. Nei primi secoli il battesimo avveniva per immersione totale, ed è per questo che la donna è nuda dentro una grande tinozza. Le onde sul pavimento non sono acqua che trabocca dal “fonte battesimale”, come ci si potrebbe aspettare, ma indicano simbolicamente che il Battista è nel fiume Giordano. La donna, con le braccia alzate, compie esattamente lo stesso gesto eterico che abbiamo notato poco fa. Nella mano sinistra San Giovanni regge un libro – presumibilmente sta leggendo le formule rituali – mentre con la destra sfiora il capo chino della battezzanda. La scena, inutile dirlo, è iniziatica.

«Osservate il contrasto fra la pace e la compostezza della cerimonia e il tumulto che si è sollevato davanti al battistero. Sette uomini si azzuffano per sbirciare al suo interno attraverso fori e fessure: ma non è il battesimo che li interessa, bensì la donna nuda. Uno di loro è in un tale stato di eccitazione che sviene; un altro si strappa i capelli perché non riesce a spiare. Tutti sono travolti dalle loro emozioni astrali.

«Se la composta scena interna è iniziatica, il disordine di quella esterna è sicuramente la rappresentazione dell’ordinaria follia del mondo. Quegli uomini sono incapaci di capire la natura spirituale dell’evento. Non vedono altro che i seni scoperti della donna: è come se guardassero la forma nuda di Iside, ma non ne cogliessero il senso interiore.

«L’immagine ci offre un quadro davvero straordinario del rapporto che i misteri intrattengono con il mondo normale. In un certo senso si può dire che l’iniziazione non è affatto nascosta. È vero che la porta del battistero è chiusa, come è giusto che sia. Nonostante la confusione all’esterno, dentro prosegue l’intenso rituale, il quale è come se si svolgesse in uno spazio e in un tempo diversi da quelli in cui vivono gli uomini che stanno fuori. L’analogia con la verità dell’iniziazione è perfetta: l’iniziazione appartiene davvero a uno spazio e a un tempo differenti da quelli del mondo quotidiano, i cui occupanti non sono in grado di riconoscere non solo l’iniziazione per quello che è, ma neppure gli iniziati, anche quando li hanno proprio sotto gli occhi.

«Quei sette uomini sono incapaci di comprendere veramente quello che accade. Sono distratti dallo schermo occulto, ossia i seni e il corpo nudo della donna, che li risucchiano a livello astrale. Sono accecati dall’intensa passione, generata dal loro corpo astrale. Ognuno si autoacceca, probabilmente con uno dei sette peccati mortali che sgorgano da tale corpo. Se solo riuscissero a spostarsi su un altro livello, in una parte diversa di sé, più alta, le squame astrali cadrebbero dai loro occhi ed essi si renderebbero conto di assistere a un mistero, a un’iniziazione.

«Come questi uomini, anche i partecipanti alla Festa dei pazzi vedevano soltanto un somaro che, ragliando in modo sacrilego, veniva condotto in chiesa. Non scorgevano la saggezza nascosta dietro il velo dei simboli. Se soltanto quanti durante la Festa dei pazzi si comportavano come asini fossero riusciti a ritrarsi in se stessi per un solo istante e a ritrovare la pace interiore… se soltanto fossero stati capaci di trasferirsi in una parte diversa di sé, si sarebbero resi conto di assistere a un mistero profondo.»

Mark Hedsel, L'iniziato

3 dicembre 2014

La natura dell'insegnamento iniziatico




Ogni scuola pratica discipline per l’iniziazione di natura e tendenza diverse, ma tradizionalmente la differenza sostanziale è fra l’insegnamento attraverso l’uso di simboli e immagini e quello basato sulla parola orale. Nei primitivi testi egizi di tradizione ermetica, tramandatici per lo più in lingua greca, i due metodi erano denominati rispettivamente epoptico e mystes. Alcune scuole li usavano entrambi. Per esempio nel culto eleusino di Demetra, molto diffuso nell’antica Grecia, i mystes venivano iniziati ai misteri minori e gli epoptes a quelli maggiori. Ma anche in sistemi combinati in questo modo i due metodi erano considerati così diversi che fra un’iniziazione e l’altra dovevano trascorrere almeno cinque anni.

Il metodo epoptico insegnava attraverso i simboli e le immagini, mentre il mystes di solito era verbale e prevedeva la figura di un maestro che dava istruzioni, a volte in forma di dialogo. Da queste due vie principali si diramavano diversi sentieri che correvano in direzioni differenti, ma aventi tutti come fine il perfezionamento dell’uomo: attraverso vari gradi ascendenti l’uomo «naturale» veniva condotto fino allo stadio di un uomo «spirituale».

Un documento dà un’idea della forza dell’antico metodo epoptico: è il misterioso Libro di Dzyan, al quale sosteneva di essersi ispirata Madame Blavatsky, l’esoterista del secolo scorso, per il suo capolavoro sulla scienza occulta The Secret Doctrine. Ma questo antico libro di immagini, questo libro senza parole, al quale fa riferimento Madame Blavatsky è ritenuto ben più di una semplice raccolta di simboli. L’esoterista G.S. Arundale, che sulla conoscenza di questo testo ha costruito un’intera disciplina meditativa, scrive che il libro era dotato di un tale «magnetismo» che chiunque ne contemplasse le immagini ne ricavava intuizioni di grande profondità.

Anche oggi, seguendo una via, si può raggiungere un analogo rapporto epoptico meditando su quei simboli antichi, e questa era sicuramente una delle pratiche di meditazione seguite da Mark Hedsel. Alcuni simboli sono dotati della capacità di «parlare» una lingua che non è assolutamente paragonabile alle forme di linguaggio scritte e parlate, né in queste può essere tradotta. I simboli possono aggirare il meccanismo pensante del cervello (abituato ad avere a che fare con le parole) e agire direttamente sull’anima. Ed è precisamente così che opera il metodo epoptico di iniziazione.

Nella maggior parte delle scuole arcane moderne prevale la tradizione orale del mystes. Da quando, cinque secoli fa, fu introdotta la stampa in Europa si è sviluppata una fiducia quasi ipnotica nel potere della parola, mentre è scomparsa quasi interamente l’antica capacità di leggere il contenuto interiore delle figure e dei simboli in un senso che non sia puramente interpretativo e analitico. Questa degenerazione di una facoltà naturale dell’anima ha influenzato le scuole occulte non meno che il pensiero e la vita quotidiani. Ci sono state invero alcune scuole che proprio per questo hanno insistito sulla necessità di sviluppare la sensibilità alla forza dei simboli e l’antica via epoptica attraverso quella che potremmo chiamare «visione meditativa». Il metodo consiste in un addestramento alla visione, basato su una verità dimostrabile: nell’uomo esiste una facoltà – attualmente sepolta nel profondo – in grado di sentire le parole della natura.

Che cosa distingue la Via del Matto dalla normalità della vita, dai comportamenti consueti? Soltanto il suo impegno a sondare il sapere occulto e la sua «visione meditativa». È tutto qui il grande segreto, forse l’unico, di questa strada, perché quella del Matto è essenzialmente la via dell’esperienza, con cui si entra nel regno della materia, per contemplarla nel profondo e potergli strappare i suoi segreti.

Mark Hedsel, L’iniziato

1 dicembre 2014

L'Asino d'oro




Nelle parabole sorte intorno ai misteri cristiani l’asino era stato redento perché aveva portato Cristo in trionfo per le strade di Gerusalemme: il segno di questa avvenuta redenzione era la nera croce che Gesù aveva lasciato impressa sulle spalle dell’animale. Il carattere esoterico del racconto è chiarissimo: il nostro corpo fisico, composto dai quattro elementi, è anche la quadruplice croce che dobbiamo portare.

Anche nella letteratura esoterica pagana l’asino è un simbolo misterico: è la creatura da cui può nascere l’iniziato ai sommi misteri. Nel più famoso racconto iniziatico del mondo antico il simbolismo dell’asino assume forme sofisticate e drammatiche: nell’Asino d’oro di Apuleio, il protagonista, Lucio, viene trasformato in asino perché si diletta di magia. Veramente quando aveva chiesto gli unguenti alla maga Pamfila Lucio non aveva alcuna intenzione di diventare un asino, anzi, voleva volare. Ma quando si ritrova, per la sua ignoranza della magia, chiuso in quella forma asinina, cambia subito idea e il suo desiderio più grande diventa quello di ritornare a essere uomo.

Dopo avere attraversato in veste di asino molte peripezie, spaventose e degradanti, Lucio si rende conto che soltanto il mondo spirituale può aiutarlo. Nelle ultime pagine del libro, mentre è ancora prigioniero del suo corpo d’asino, egli si sveglia «nel più misterioso dei momenti», quando la Luna è alta in cielo. Rivolge a Iside, la divinità lunare, la preghiera di liberarlo dalla sua forma bestiale, invocandola con tutti i suoi nomi segreti. Viene ascoltato. La dea gli appare in sogno o forse durante una visione. In mezzo alla fronte ha una Luna che come uno specchio promana la sua stessa luce. Soltanto il manto di Iside è completamente scuro e oscurante, ma sulla tunica si intravedono le stelle e la Luna piena. Iside ha con sé un sistro magico, come la dea egizia e come i sacerdoti iniziatici. Comunica a Lucio di essere venuta a soccorrerlo. L’asino si sveglia e scopre di essere in mezzo a una processione iniziatica, che, sotto certi aspetti, assomiglia ai cortei medievali della Festa dei Pazzi, con un’unica differenza: in Apuleio la processione è in onore dei misteri di Iside e non di quelli cristiani.

Lucio sapeva fin dal principio delle sue tribolazioni che se fosse riuscito a mangiare una rosa sarebbe tornato alla condizione umana. Ebbene, un sacerdote iniziato, istruito dalla dea, si stacca dal corteo e porge all’asino un mazzo di rose. L’asino d’oro, arricchito dalla sapienza e dal dolore che la sua servitù di bestia gli ha procurato, mangia le rose e come per miracolo si trasforma in un uomo più elevato.

Tale è lo stupore per il mistero della metamorfosi tanto agognata che Lucio resta paralizzato e non dice nulla. Non conosce parole capaci di esprimere la sua gioia e neppure per ringraziare la dea della sua generosità. Conformemente all’antica saggezza misterica, si ha qui l’affermazione che le parole servono soltanto nel mondo ordinario e valgono ben poco nei misteri supremi dello spirito.

Mark Hedsel, L'iniziato