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28 marzo 2015

I misteri astrologici di Ferrara: la sala dei Mesi




Entrammo a Palazzo Schifanoia da via Scandiana, attraverso un portone che sicuramente era il meno maestoso di tutti quelli dei palazzi italiani. Mi sembrava incredibile che un ingresso così modesto conducesse a un tesoro qual era la stanza con gli affreschi dei Mesi. Come tante altre immagini arcane in Italia, anche queste vengono chiamate in modo improprio: non si tratta affatto della rappresentazione dei mesi, bensì dello studio dei tre mondi interpenetranti della materia, dell’anima e dello spirito, unificati da un oscuro tema astrologico.

Purtroppo non tutti gli affreschi si sono conservati; quelli sopravvissuti sono distribuiti in gruppi di tre sulle pareti. La rappresentazione di ciascun «mese» è a sua volta tripartita: la fascia superiore presenta il trionfo degli dei associati al mese, quella centrale i segni dello zodiaco con le relative personificazioni astrali e quella inferiore la vita umana rappresentata attraverso personaggi contemporanei del pittore cui sono attribuite alcune parti della decorazione: Francesco del Cossa.

La sala dei Mesi fu probabilmente chiamata così perché il disegno ermetico della fascia centrale ha per tema i dodici segni zodiacali che venivano comunemente associati ai mesi. Anch’essa è suddivisa in tre sezioni verticali, non contrassegnate graficamente: si tratta di un espediente artistico per rappresentare i decani secondo quello che era considerato l’antico metodo egizio, la cui memoria era sopravvissuta nell’astrologia medievale. In base a questo metodo, ogni arco dello zodiaco veniva suddiviso in tre sezioni identiche, chiamate talora «facce» e talora «decani» e caratterizzate da immagini specifiche. Esistevano diverse tradizioni per stabilire il pianeta governatore di ognuna di queste sezioni, ma in ogni caso venivano utilizzate tre distinte figure come simbolo di tali divisioni.

Se ne può vedere un esempio nella rappresentazione delle tre «facce» dei Pesci nella figura seguente.


Sono le immagini appartenenti a questa tradizione che compaiono nella fascia zodiacale degli affreschi.

Il «mese» che stavamo osservando era in teoria dedicato a marzo. La fascia centrale raffigura infatti il capro dell’Ariete. Due simboli dei decani sono rispettivamente davanti e dietro l’animale in corsa, mentre il terzo lo sovrasta.


Nella fascia superiore è dipinta una complessa scena mitologica, che ha al centro Minerva in trionfo sul suo carro: la dea della sapienza acquistò poi il carattere guerriero, ed è probabilmente per questo che è stata associata all’Ariete, segno dominato dal pianeta Marte.

La fascia più bassa degli affreschi raffigura il mondo terreno. In alto, a sinistra, il duca Borso dispensa la giustizia, una delle azioni associate all’Ariete. Più sotto, sempre a sinistra, lo si vede andare a caccia in sella al suo cavallo, con levrieri e falconi: la caccia è il diletto di Marte e dell’Ariete.

Purtroppo la parte inferiore della fascia, essendo la più facilmente raggiungibile, è quella che ha subito i danni maggiori, conseguenza dell’abbandono e dell’incuria subentrati con la decadenza di Ferrara; per un certo periodo Palazzo Schifanoia fu addirittura adibito a laboratorio per la lavorazione del tabacco e, benché fossero stati intonacati, gli affreschi furono rovinati dall’improprio uso quotidiano che fu fatto della sala dei Mesi.

L’organizzazione degli affreschi in tre sezioni si ripete identica in quelli dedicati a settembre, o meglio al segno della Bilancia con i suoi tre decani.


A interessarci in particolare era la fascia più alta, quella mitologica, perché vi si vede Vulcano, il dio che portò l’alchimia fra gli uomini, su un carro trainato da scimmie. Chissà se i pittori che l’avevano affrescato sapevano che la presenza di questi animali rinviava alla letteratura ermetica di Toth, il dio dalla faccia di scimmia?

A sinistra del carro gli alchimisti battono il ferro sull’incudine, forse un’allusione al nome Ferrara, il luogo in cui si lavora il ferro.

A destra ci sono due figure coperte da un lenzuolo che, se non fosse d’argento, potrebbe essere scambiato per un sudario. Pare che dormano, ma non è affatto così: sono Marte e Ilia che si stanno amando, e dalla loro passione nascerà una nuova civilità. La bella veste azzurra e bianca della ninfa è delicatamente distesa accanto al letto, mentre Marte, meno rispettoso delle cose materiali, ha gettato a terra l’armatura. I due amanti sono senza vesti (ossia privi del corpo fisico) a significare che si trovano nel mondo più alto, ossia quello spirituale. Marte, che è un dio, non dovrà discendere ai livelli più bassi del ples daun, finché non sarà di nuovo preso dal desiderio di congiungersi con una donna. Ilia, invece, che è umana, dovrà tornare sulla terra firma, e per il suo peccato verrà punita con la morte.

Il segreto di questa coppia di amanti è raffigurato sul lato opposto del carro di Vulcano, dove si trova uno scudo. Sembra una porta verso lo spazio. Sullo scudo è dipinta la lupa che allatta Romolo e Remo. La ninfa adagiata nel giaciglio sta allora concependo, sotto la guida esperta di Marte, i due gemelli, e diventerà la madre dei leggendari fondatori di Roma.

Come suggerisce il tema dell’affresco, questo concepimento è un’alchimia spirituale: è la nascita dello spirito che fa da contrappunto all’alchimia più materiale dei fabbri sull’altro lato del carro. Anche il drappo argenteo che avvolge i due amanti ha un valore simbolico: è l’argento delle stelle, più che un metallo. Ilia era una delle vergini vestali, cui era proibita la conoscenza carnale, e Vulcano era al servizio di un fuoco esoterico. Racconta il mito che dopo la nascita illegittima dei gemelli il fratello Amulio gettò Ilia insieme ai figli nel Tevere: i gemelli si salvarono miracolosamente, ma lei annegò.

I fabbri a sinistra battono il ferro sull’incudine. Ma su che cosa poggia l’incudine? Sembra una pietra nera. Quasi sicuramente è il lapis niger che ricorda la tomba del fondatore di Roma. Non sorprende che una simile pietra compaia in un simbolismo alchemico: forse indica la morte o la scissione di cui la morte non è che un segno – il ritorno dello spirito nei regni dello spirito. E intanto Vulcano, trainato da una coppia di scimmie e circondato da altre scimmie, sette in totale, osserva dall’alto questa dovizia di simboli ispirati alla sua arte del fuoco.

Mark Hedsel, L'iniziato

7 marzo 2015

La Vergine e l'unicorno




Con quali altri simboli si traveste questa dea potente?

Consideriamo il mito medievale dell’unicorno, una creatura schiva, che non osa avvicinarsi agli esseri umani, i quali gli appaiono come alieni, lontani dalla luce delle stelle. L’unicorno prova stupore davanti alle cose del mondo, eppure è attratto dalla visione di una vergine immacolata, seduta su un poggio erboso.

La vergine, bella oltre ogni dire, è protetta da ogni lato da soldati con la spada sguainata. Benchè sia vero che in segreto i soldati la concupiscono, le loro spade sono tuttavia rivolte verso l’esterno, a difesa della vergine, perché a questo compito essi si sono votati divenendo servi di Marte.

L’unicorno avanza timidamente e si inginocchia davanti alla vergine nella quale riconosce la Regina del Cielo, la Vergine Celeste ammantata di stelle, che tiene fra le braccia un fastello di grano, simbolo delle messi di cui colmerà la Terra morente. L’unicorno posa il suo singolo corno nel grembo della Iside-Vergine innamorata, compiendo così l’atto cui tutti i soldati ambivano, ma che avevano avuto timore di compiere.

Il simbolismo del mito è trasparente a tal punto che non occorre neppure analizzarlo. I soldati impugnano la spada per tenere lontano il mondo esterno, mentre all’unicorno è spuntata una spada sul capo. Quel singolo corno è figlio delle facoltà immaginative.

Non sorprenderà forse scoprire che l’unicorno, la vergine Iside nelle sue molte forme, e le guardie compaiono in molte immagini alchemiche medievali, e anche nelle stampe popolari cristiane.

Mark Hedsel, L'iniziato

1 dicembre 2014

Le regole del travestimento




«Aveva ragione Michael» osservai quando mi incontrai con Mark per parlare del suo libro. Era l’ultimo lunedì di agosto del 1991.

«In che cosa aveva ragione?»

«Sono diventato uno scrittore.»

«Vuoi dire uno scriba» mi corresse con garbo. Era proprio vero: ero diventato uno scriba, uno che lavorava con i geroglifici più che con le parole. Forse era per questo che da ragazzo avevo deciso di darmi alla pittura, prima di iscrivermi alla facoltà di Lettere. Una figura è più vicina all’idea di quanto non lo sia una parola, che si limita semplicemente a evocare le immagini: la parola scritta è per definizione una fonte secondaria. Un volto può far salpare mille navi; ma la descrizione di un volto ben difficilmente ne spingerà una sola a prendere il largo.

«Ecco, adesso io sarò la figura» disse Mark «e tu mi aiuterai a tradurmi in parole.»

«Non capisco. Quale figura?» Erano passati tanti anni, ma le sue frasi così ben articolate erano ancora enigmatiche per me. «Quale figura?» ripetei.

«Io sarò la figura del Matto nel mazzo dei tarocchi.»

Probabilmente lo fissai stranito, perché tutto si poteva dire di Mark, tranne che fosse matto e, a quanto ne sapevo, non lo era mai stato. Lo osservai con attenzione. Era cambiato, tutti e due eravamo cambiati in quei quarant’anni. Non portava più né la sciarpa al collo né il basco. Adesso indossava un elegante completo e una costosa cravatta di seta, tuttavia non sembrava granché invecchiato. Se era matto, sapeva nasconderlo bene. Mentre lo studiavo, mi passò davanti agli occhi, come un fantasma che tornava a ossessionarmi, l’antica immagine di quell’iniziato francese senza età che era il conte di Saint-Germain.

«La figura del Matto?» ripetei. «Che cosa intendi dire?»

Rise. «Lo scoprirai lavorando con me al libro. Tu sarai il mio pittore.» Sorseggiò il caffè. «Conosci la figura del Matto delle carte marsigliesi?»

Annuii. L’antico disegno raffigurava un Matto, che con il bastone in mano cammina lungo una strada.

Si batté la fronte con una mano. «È tutto qui, rinchiuso qui dentro. Ti darò la chiave.»

«Una specie di autobiografia?» Era quello che speravo: lavorando a un progetto del genere avrei imparato molte cose. Che occasione straordinaria mi offriva Mark.

«In un certo senso. Vedremo che cosa ne uscirà. Alcuni di quelli con cui ho lavorato sono ancora vivi. Dovrò cambiare i nomi delle persone e dei luoghi.»

«Diventeremo maestri del travestimento.»

«Perfetto. Le grandi verità si presentano sempre sotto mentite spoglie. Dopo tutto il mondo materiale è a dir tanto una maschera di quello spirituale. Credo sia questa la ragione per cui Michael Juste teneva in negozio il proprio busto.»

«Come travestimento?»

«Come estrinsecazione della sua maschera. È meglio che la maschera stia fuori. Se si insinua all’interno, può diventare pericolosa.»

Sapevo a cosa alludeva. Non si dovrebbe mai credere all’esteriorità bugiarda. La maschera era in un certo senso una menzogna.

«C’è un punto in cui l’immaginazione non solo dissimula la realtà, ma la fa apparire più vera.»

Scosse la testa, ridendo. «Nel mondo da cui provengo, questa la chiamano arte. Sei mai stato a Najera, La Rioja?» domandò.

«Al monastero di Santa-Maria-la-Real?»

«Sì. Su uno degli scanni è intagliata la figura di un Matto. Risale al XV secolo.»

Me ne ricordavo. «Suona il flauto, vero?»

«Sì. Come il Matto dei tarocchi ha ai suoi piedi un cane. Anzi, due, ma solo uno abbaia. La cosa interessante, però, è il suo abbigliamento.»

«Porta il cappello da buffone, se non sbaglio.»

«Sì. Ma è la veste che è curiosa: è aperta davanti e dietro; così le sue parti intime sono sempre esposte. Si tratta del Matto nudo. È un’immagine che viene da lontano. La nudità è il segno che il vero Matto è disposto a mostrare quello che gli altri preferiscono tenere nascosto. Il matto che indica la via verso la visione superiore, che si raggiunge con l’iniziazione, è spesso considerato pazzo da quelli che dormono. Sono assopiti tutti coloro che non intendono seguire un percorso spirituale, che, accontentandosi del regno delle apparenze, vogliono soltanto essere lasciati in pace, da soli, appunto a dormire. Queste immagini medievali del Matto sono molto istruttive. La Festa dei pazzi era una ricorrenza estremamente importante, perché in essa confluivano correnti esoteriche sotterranee. Naturalmente ne saprai di più se scriveremo insieme il libro.»

«Un libro su Mark Hedsel nudo?»

Rise. «Nudo solo in parte, ossia un matto trasformato dall’immaginazione.» E sottolineò il richiamo all’immagine contenuto nell’ultima parola.

Seguì un breve silenzio.

«Immagini» mormorò pensoso. «Sai che alcuni degli artisti egizi che incidevano i geroglifici sulle mura dei templi non sapevano leggerli?»

«Veramente?»

«I sacerdoti chiamavano lo scalpello mer, il cui suono era identico a quello della parola che indicava la “morte”. Non è un mistero? Esprime la consapevolezza che affinché qualcosa possa manifestarsi come immagine – come raffigurazione di un’idea – qualcos’altro deve morire.»

Alzò le spalle con aria indifferente, ma io avevo capito che si stava avvicinando al cuore del metodo arcano – al concetto di scissione – che è il processo fondamentale dell’iniziazione e ha un ruolo essenziale nella Via del Matto.

«Forse» continuò «gli scalpellini egizi che usavano il loro mer ne ignoravano completamente il significato profondo. Il loro compito era rispettare i canoni dell’arte: conoscevano le regole del travestimento, ma non sapevano che cosa travestivano. Non avevano la minima idea di quali archetipi – dai loro sacerdoti chiamati neter – essi evocassero. Con ogni glifo che incidevano nella pietra, calavano dentro la forma materiale gli agenti spirituali: operavano magie senza saperlo.» Mi guardò fisso. «Ammetterai che questa è un’attività che soltanto i matti possono svolgere.»

«Non solo loro» replicai. «Non è forse vero che tutti noi evochiamo archetipi – idee primigenie – che non comprendiamo appieno?»

«Certo. È esattamente a questo che mi riferivo. La vita di ognuno di noi rivela quali archetipi abbiamo seguito. Ecco perché il Matto è disposto ad attraversare la vita nudo di fronte al mondo: perché sa che ciò che sta in basso altro non è se non il riflesso di ciò che sta in alto.»

Mark Hedsel, L'iniziato

Ringraziamenti




Il dono più prezioso è l’amicizia, disse il Serpente Verde di Goethe. L’amicizia ha il potere di scorgere la luce interiore al di là dell’ombra, ed è questa sua forza che rende prezioso il dono.

E tuttavia un esoterista non può parlare di luce senza pensare anche all'oscurità, perché sa che la fiamma e l’ombra sono tutt'uno. Si può imparare di più dai nemici che dagli amici, recita un saggio detto esoterico. E se persino un nemico ci può aiutare, allora qualunque incontro con un nemico può in teoria essere un dono di sapienza. Di conseguenza tutte le persone in cui ci siamo imbattuti nella vita, sia pure per un solo istante, meritano i nostri ringraziamenti.

Ci sono però taluni incontri – certe amicizie – che sembrano prive di ombre. Mark Hedsel mi ha raccontato un suo strano contatto con un iniziato, a Chartres. L’uomo era sbucato fuori dal nulla e, spiegandogli un simbolo esoterico, aveva rivelato a Mark la soluzione di un problema che lo tormentava da anni. Poi era sparito con la stessa rapidità con cui era comparso, prima ancora che Mark avesse il tempo di ringraziarlo o di chiedergli il nome. In quest’incontro c’è qualcosa di archetipico; così infatti sono molti incontri veri: profondi sul piano spirituale eppure tanto fuggevoli sul piano spaziale da scivolare via quasi inosservati. Sono certo che se avesse avuto la possibilità di manifestare la sua gratitudine, Mark avrebbe ringraziato quell'ignoto iniziato insieme ad altre centinaia di uomini e donne che gli hanno reso più agevole il viaggio sulla Via in questa Valle.

Mark Hedsel, L'iniziato