Visualizzazione post con etichetta Simbolismo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Simbolismo. Mostra tutti i post

23 marzo 2016

La Sheelah-Na-Gig




La Sheelah-Na-Gig è una delle più strane testimonianze del paganesimo che si possano vedere nelle chiese europee. È l’immagine di una donna con le pudende esposte in modo tale da sembrare una porta spalancata. Il riferimento alla vulva come porta della nascita è chiaro: la figura aveva, forse anche nel mondo pagano, un’origine iniziatica. Meditando su questa immagine si ha l’impressione che la kteis terrena – il didietro della capra, tanto per intenderci – si sia tramutata nella bocca di una vergine sacerdotessa. L’apertura verticale è una promessa di accesso iniziatico, che conduce al di là del corpo fisico della Sheelah.

Si potrebbe forse sostenere che la Sheelah non è più pagana, che raffigura la nascita umana di Cristo, o che simboleggia il Cristo, come portale della vita. Ma sono argomentazioni che si smentiscono da sole, perché la Sheelah è molto più antica del cristianesimo e non basta cambiare interpretazione per cambiare il significato di un simbolo. Che queste immagini lascive siano riuscite a sopravvivere in tante chiese cristiane è già di per sé motivo di meraviglia e forse nasconde una lunga storia.

Secondo Gerald Massey, Sheelah deriva dall’egiziano sherah, che significa “sorgente”, “acque sorgive”, ma anche “rivelare”, “mostrare”, che è precisamente quanto fa la Sheelah dalle facciate e dai campanili delle chiese medievali: mostra le sue parti intime, la sua kteis. Avrete già capito che se non solo il nome, ma anche l’immagine è di origine egizia, allora la Sheelah esibisce il ru.

Senza alzarsi dalla sedia, il maestro allungò il braccio verso la lavagna e disegnò le due curve che formano il geroglifico, accentuando il movimento per dimostrare che il ru era formato da due falci di Luna.

Questo antico segno era a un tempo una kteis, una bocca e una porta, ed era costituito da due mezzelune. Il ru era la porta di ingresso al mondo spirituale, quella che conduceva nella camera dell’iniziazione. Era il passaggio della nascita, posto tra il regno materiale e quello spirituale. Il legame con l’iniziazione si è conservato, per esempio, in Irlanda dove la Sheelah viene talora chiamata Patrick’s Mother, “la madre di Patrizio”, e questo ci ricorda che fu San Patrizio a introdurre sull’isola l’iniziazione al cristianesimo, sostituendo agli antichi metodi iberici dei druidi quelli più avanzati di Cristo. La conversione fu graduale, e le immagini e i luoghi sacri più antichi continuarono a esistere. Già questo è di per sé interessante. Perché, se c’è al mondo una terra in cui gli antichi siti di iniziazione pagana sono ancora vivi, questa è l’Irlanda.

Ma torniamo al ru. Se è vero che è sopravvissuto nella figura semi oscena della Sheelah, è anche vero che compare in immagini cristiane molto più pudiche. Ru è diventato la Vesica Piscis, la mandorla mistica, che nell’arte medievale circonda la Madonna e a volte Cristo. La Vesica è formata anch’essa da due mezzelune che si incrociano. Comprenderete, naturalmente, quanto sia straordinario che la Sheelah sia riuscita a sopravvivere nell’arte ecclesiale: la kteis, per quanto ben mascherata, non è ovviamente un simbolo cristiano, d’altra parte la Sheelah non fa di certo mistero della sua mercanzia.

Se Massey è nel giusto, e il gig del nome deriva dall’egiziano kekh, allora il nome tutt’intero allude alle sue origini iniziatiche, e poiché in egiziano antico kekh significava “santuario”, si capirebbe perché mai la Sheelah si trovi esclusivamente sui muri delle chiese. O c’è forse ancora un significato più profondo? Che la Sheelah sia il retaggio – forse l’unico rimasto nell’arte cristiana – dell’antica magia sessuale tanto diffusa nel mondo pagano e ancora oggi praticata in oriente fra i tantrici? Quanto più si considera la questione, tanto più si è indotti, io credo, a vedere proprio questo nella Sheelah.

Mark Hedsel, L'iniziato

28 marzo 2015

I misteri astrologici di Ferrara: la sala dei Mesi




Entrammo a Palazzo Schifanoia da via Scandiana, attraverso un portone che sicuramente era il meno maestoso di tutti quelli dei palazzi italiani. Mi sembrava incredibile che un ingresso così modesto conducesse a un tesoro qual era la stanza con gli affreschi dei Mesi. Come tante altre immagini arcane in Italia, anche queste vengono chiamate in modo improprio: non si tratta affatto della rappresentazione dei mesi, bensì dello studio dei tre mondi interpenetranti della materia, dell’anima e dello spirito, unificati da un oscuro tema astrologico.

Purtroppo non tutti gli affreschi si sono conservati; quelli sopravvissuti sono distribuiti in gruppi di tre sulle pareti. La rappresentazione di ciascun «mese» è a sua volta tripartita: la fascia superiore presenta il trionfo degli dei associati al mese, quella centrale i segni dello zodiaco con le relative personificazioni astrali e quella inferiore la vita umana rappresentata attraverso personaggi contemporanei del pittore cui sono attribuite alcune parti della decorazione: Francesco del Cossa.

La sala dei Mesi fu probabilmente chiamata così perché il disegno ermetico della fascia centrale ha per tema i dodici segni zodiacali che venivano comunemente associati ai mesi. Anch’essa è suddivisa in tre sezioni verticali, non contrassegnate graficamente: si tratta di un espediente artistico per rappresentare i decani secondo quello che era considerato l’antico metodo egizio, la cui memoria era sopravvissuta nell’astrologia medievale. In base a questo metodo, ogni arco dello zodiaco veniva suddiviso in tre sezioni identiche, chiamate talora «facce» e talora «decani» e caratterizzate da immagini specifiche. Esistevano diverse tradizioni per stabilire il pianeta governatore di ognuna di queste sezioni, ma in ogni caso venivano utilizzate tre distinte figure come simbolo di tali divisioni.

Se ne può vedere un esempio nella rappresentazione delle tre «facce» dei Pesci nella figura seguente.


Sono le immagini appartenenti a questa tradizione che compaiono nella fascia zodiacale degli affreschi.

Il «mese» che stavamo osservando era in teoria dedicato a marzo. La fascia centrale raffigura infatti il capro dell’Ariete. Due simboli dei decani sono rispettivamente davanti e dietro l’animale in corsa, mentre il terzo lo sovrasta.


Nella fascia superiore è dipinta una complessa scena mitologica, che ha al centro Minerva in trionfo sul suo carro: la dea della sapienza acquistò poi il carattere guerriero, ed è probabilmente per questo che è stata associata all’Ariete, segno dominato dal pianeta Marte.

La fascia più bassa degli affreschi raffigura il mondo terreno. In alto, a sinistra, il duca Borso dispensa la giustizia, una delle azioni associate all’Ariete. Più sotto, sempre a sinistra, lo si vede andare a caccia in sella al suo cavallo, con levrieri e falconi: la caccia è il diletto di Marte e dell’Ariete.

Purtroppo la parte inferiore della fascia, essendo la più facilmente raggiungibile, è quella che ha subito i danni maggiori, conseguenza dell’abbandono e dell’incuria subentrati con la decadenza di Ferrara; per un certo periodo Palazzo Schifanoia fu addirittura adibito a laboratorio per la lavorazione del tabacco e, benché fossero stati intonacati, gli affreschi furono rovinati dall’improprio uso quotidiano che fu fatto della sala dei Mesi.

L’organizzazione degli affreschi in tre sezioni si ripete identica in quelli dedicati a settembre, o meglio al segno della Bilancia con i suoi tre decani.


A interessarci in particolare era la fascia più alta, quella mitologica, perché vi si vede Vulcano, il dio che portò l’alchimia fra gli uomini, su un carro trainato da scimmie. Chissà se i pittori che l’avevano affrescato sapevano che la presenza di questi animali rinviava alla letteratura ermetica di Toth, il dio dalla faccia di scimmia?

A sinistra del carro gli alchimisti battono il ferro sull’incudine, forse un’allusione al nome Ferrara, il luogo in cui si lavora il ferro.

A destra ci sono due figure coperte da un lenzuolo che, se non fosse d’argento, potrebbe essere scambiato per un sudario. Pare che dormano, ma non è affatto così: sono Marte e Ilia che si stanno amando, e dalla loro passione nascerà una nuova civilità. La bella veste azzurra e bianca della ninfa è delicatamente distesa accanto al letto, mentre Marte, meno rispettoso delle cose materiali, ha gettato a terra l’armatura. I due amanti sono senza vesti (ossia privi del corpo fisico) a significare che si trovano nel mondo più alto, ossia quello spirituale. Marte, che è un dio, non dovrà discendere ai livelli più bassi del ples daun, finché non sarà di nuovo preso dal desiderio di congiungersi con una donna. Ilia, invece, che è umana, dovrà tornare sulla terra firma, e per il suo peccato verrà punita con la morte.

Il segreto di questa coppia di amanti è raffigurato sul lato opposto del carro di Vulcano, dove si trova uno scudo. Sembra una porta verso lo spazio. Sullo scudo è dipinta la lupa che allatta Romolo e Remo. La ninfa adagiata nel giaciglio sta allora concependo, sotto la guida esperta di Marte, i due gemelli, e diventerà la madre dei leggendari fondatori di Roma.

Come suggerisce il tema dell’affresco, questo concepimento è un’alchimia spirituale: è la nascita dello spirito che fa da contrappunto all’alchimia più materiale dei fabbri sull’altro lato del carro. Anche il drappo argenteo che avvolge i due amanti ha un valore simbolico: è l’argento delle stelle, più che un metallo. Ilia era una delle vergini vestali, cui era proibita la conoscenza carnale, e Vulcano era al servizio di un fuoco esoterico. Racconta il mito che dopo la nascita illegittima dei gemelli il fratello Amulio gettò Ilia insieme ai figli nel Tevere: i gemelli si salvarono miracolosamente, ma lei annegò.

I fabbri a sinistra battono il ferro sull’incudine. Ma su che cosa poggia l’incudine? Sembra una pietra nera. Quasi sicuramente è il lapis niger che ricorda la tomba del fondatore di Roma. Non sorprende che una simile pietra compaia in un simbolismo alchemico: forse indica la morte o la scissione di cui la morte non è che un segno – il ritorno dello spirito nei regni dello spirito. E intanto Vulcano, trainato da una coppia di scimmie e circondato da altre scimmie, sette in totale, osserva dall’alto questa dovizia di simboli ispirati alla sua arte del fuoco.

Mark Hedsel, L'iniziato

27 marzo 2015

Arte esoterica a Verona: la porta bronzea di San Zeno




Quel martedì pomeriggio, quando parcheggiammo l’automobile nella piazza davanti a San Zeno, Rachel e Christobel erano accanto a uno dei leoni marmorei che stanno a guardia del portico della chiesa. Fummo sorpresi di vederle, perché avevamo accennato solo vagamente ad un incontro, e questo quasi due settimane prima; inoltre, sono così tante le bellezze dell’Italia settentrionale che possono tentare un viaggiatore facendolo deviare dal suo itinerario! Qualche istante dopo eravamo già sotto il portico ed esaminavamo le splendide formelle della porta bronzea. Era un pomeriggio caldo, soffuso di quella piacevole indolenza che si coglie in quasi tutte le piazze italiane, eppure in quell’aria pigra percepivamo un’attesa, come se stesse per accadere qualcosa di importante.

Per qualche istante guardammo in silenzio i pannelli: sotto i raggi del Sole i bassorilievi si stagliavano nitidi in mezzo alle ombre.

«Di che periodo sono?» chiese Christobel.

«Alcuni del XII, altri del XIII secolo.»

«Come quelli della Sacra di San Michele?»

«Sì, forse la Sacra è un poco più antica.»

«Ci sono elementi astrologici?» domandò Rachel.

«Non ovvi» replicammo. «Ma che ne dite di quello?» e indicammo uno dei pannelli.


«È un’acrobata?»

«No, non direi. È Salomè che danza.» Capivamo perché Rachel avesse pensato all’acrobata. Salomè, presa dal desiderio di compiacere Erode, si contorce fino a formare un cerchio. Con una mano si afferra un piede e lo tira verso la testa, danzando, quasi letteralmente, in tondo. «Osservate come la testa sfiori i piedi. Questa è astrologia. O almeno, astrologia medievale.»

«Perché?» la voce di Rachel era dubbiosa.

«Ogni parte dell’essere umano è collegata con una parte del cosmo.»

Avremmo voluto avere davanti l’immagine medievale dell’uomo zodiacale per illustrare i segni che governano il corpo umano, mentre spiegavamo: «La testa è sotto il segno dell’Ariete, la gola del Toro… i piedi dei Pesci. Perciò la testa e i piedi sono governati dai due punti estremi dello zodiaco. Nel cerchio zodiacale i due segni si toccano: i piedi dei Pesci incontrano la testa dell’Ariete. Salomè imita lo zodiaco, unendo il passato dell’Ariete al futuro dei Pesci. I primi cristiani eseguivano danze sacre, nel corso delle quali cercavano di sintonizzare il corpo con i movimenti dei pianeti. Questa è vera astrologia.»

«Salomè sembra un pesce» osservò Christobel.

«Sì, anche questo fa parte del simbolismo. In un certo senso, Salomè è un pesce. Guardate.» Indicammo un punto sulla destra del pannello. «Ecco di nuovo Salomè, con il capo reciso del Battista. Lei è il Pesce, e San Giovanni è l’Ariete: un altro simbolismo cosmico.»

L’uso del pannello offriva la possibilità di realizzare quella che i critici moderni chiamano una «rappresentazione continua»: il tempo viene condensato, e azioni che nella narrazione sono separate vengono raffigurate su un unico piano spaziale. È una tecnica molto antica, risalente all’arte egizia, fondata sul concetto che l’immagine è eterna, ossia è «al di fuori del tempo».

«Ci sono pesci in diversi punti» osservò Rachel. «Guardate, persino sulle foglie.» Quelli di alcune formelle sembravano quasi disegni astratti, con foglie e rami fra cui si annidavano uccelli e pesci.

«Sì.» annuimmo, sorridendo. C’erano due pesci sotto due uccelli e formavano una croce. «Forse vi meraviglia vedere i pesci sugli alberi, come nei racconti biblici, ma non sono stati messi lì semplicemente per stupire. Le foglie e i rami sono un simbolo medievale per quello che noi oggi chiamiamo l’eterico, ma che lo scultore avrebbe probabilmente chiamato quintessenza

«Il quinto elemento?»

«Sì. L’elemento invisibile che tiene uniti gli altri quattro, senza il quale regnerebbe eterna discordia nel patto fra le cose.» Eravamo scivolati, senza accorgercene, nelle citazioni poetiche.

«Quella stessa quintessenza di cui ci ha parlato alla Scala dei morti?» domandò Rachel.

«Proprio quella. Se osservate bene, vi accorgerete che in realtà l’intero pannello è un’allegoria del quinto elemento. Gli uccelli sono l’Aria, i pesci l’Acqua, le piante la Terra e l’orifizio a forma di fiamma fra gli uccelli e i pesci è il Fuoco. Al centro del fuoco ci sono le radiazioni cosmiche del quinto elemento.»

«E pensare che credevo bastasse conoscere la Bibbia per capire l’arte cristiana» disse con una smorfia Rachel.

Scoppiammo tutti e tre a ridere, più che altro per l’espressione buffa comparsa sul viso di Rachel. «Eppure anche la Bibbia ha livelli di simbolismo ancora inesplorati.» Pensieri sulla complessità delle metafore delle Scritture ci attraversarono come un lampo la mente, ma non volevamo fare discorsi troppo complicati con le due ragazze. Tuttavia, una o due cose era forse il caso di spiegarle.

«Non tutti i bronzi sono in realtà di ispirazione biblica; alcuni sono basati sulla Legenda Aurea, una raccolta di miti, leggende e mezze verità sulla vita dei santi, trascritta da Giacomo da Varazze più o meno nello stesso periodo in cui furono scolpite queste porte. La formella con San Zeno che pesca racconta proprio un episodio della Legenda Aurea

«Ma per lo meno qui il simbolismo è cristiano» osservò Christobel, che, essendo una credente convinta, era stata visibilmente turbata dalle immagini pagane della Sacra di San Michele.

«Se ti interessa il simbolismo cristiano, guarda quella crocifissione. Osserva come il Sole irradia la sua luce verso l’esterno. La testa al centro di quel cerchio è quella di Michele, l’arcangelo del Sole.»


«E chi è l’angelo sulla Luna?» domandò. La figura alata spuntava dalla falce di Luna, con le punte rivolte verso l’alto, come una barchetta.

«È Gabriele, l’arcangelo della Luna. La Luna sovrasta la mano destra di Cristo e il Sole la sinistra. La Luna a barchetta è il simbolo dell’Acqua, mentre il Sole è il simbolo del Fuoco. Sono le due forze opposte del cosmo: nella concezione medievale il fuoco sale, mentre l’acqua scende. E tuttavia il mistero cristiano consiste proprio nel «miracolo» del fuoco che scende. Guarda: c’è un punto in cui la luce del Sole assume la forma di un’ala, si distacca dal disco solare e si posa sulla corona di spine di Cristo; questo significa che Cristo, benché crocifisso e morto, è ancora vivo. È vivo nella quintessenza.»

«Se non ricordo male» disse Christobel, «ci fu un’eclisse al momento della Crocifissione.»

«Sì, le tenebre oscurarono la faccia della Terra perché il Sole si era spento, o comunque qualcosa era accaduto. Gli artisti sono sempre stati affascinati dal significato simbolico dell’incontro tra il Sole e la Luna, in particolare nei dipinti che hanno per soggetto la Crocifissione. In questo pannello la luce ricompare in una forma più elevata, come corpo di Cristo. Il Sole-Zodiaco proietta la sua luce su Gesù in croce, affinché, per suo tramite, l’umanità possa fruirne. Esiste un nesso fra questo simbolismo e quello dell’Ariete e dei Pesci contenuto nel pannello di Salomè. Nella Crocifissione la luce piove sul capo di Cristo e i due uomini ai lati della croce sfiorano i piedi di Gesù con i loro piedi. È la stessa allegoria dell’Ariete e dei Pesci. In termini strettamente cristiani è un commento ai primi versetti del Vangelo di Giovanni.»

«E i due uomini? Uno ha in mano uno strumento di tortura. Chi sarebbe?»

«È Nicodemo. Ha le tenaglie. Con quelle strapperà le unghie dalle mani di Cristo.»

«E l’altro, quello che cinge Cristo con le braccia?»

«Quello è Giuseppe d’Arimatea, che accompagnerà Gesù nel sepolcro. È lui che, secondo la leggenda, ha portato in Inghilterra il Graal e l’ha sepolto a Glastonbury. Il suo piede tocca quello di Cristo. Di nuovo i Pesci. Indicano che Giuseppe d’Arimatea è diventato pescatore di uomini sotto la guida di un Pesce. Diversi secoli dopo la realizzazione di questa porta, William Blake scrisse poesie ed eseguì disegni sul tema di Giuseppe d’Arimatea. Blake sapeva cogliere i simbolismi nascosti, e nel racconto della sepoltura di Cristo percepì un significato molto profondo. Era convinto che Giuseppe fosse in segreto un discepolo di Cristo e fosse poi giunto fino in Inghilterra, portando con sé il Graal, che aveva sepolto su un colle, così come aveva sepolto il corpo di Cristo in una caverna nella roccia.»

Le due ragazze osservarono la porta con un rinnovato interesse. Rachel cominciò a contare i raggi del Sole. Erano ottantotto, come le fiamme del cerchio di fuoco del Signore della danza, Shiva.

Christobel a sua volta contò i pesci sparsi nei vari pannelli. Arretrammo di qualche passo e restammo a guardare. Era affascinante vedere un’opera esoterica irradiare la sua influenza e trasmettere i suoi simboli arcani ancora dopo tanti secoli.

Appena prima, mentre parlavamo, avevamo notato un uomo allampanato, pantaloncini e camicia a scacchi aperta sul collo, con la faccia cotta dal Sole e un sorriso cordiale. Si aggirava nei dintorni, abbastanza vicino per ascoltare le nostre parole. In spalla aveva un grosso zaino sul quale era cucita una bandiera a stelle e strisce. Chissà se sapeva che quella bandiera era un simbolo segreto e che le strisce rappresentavano il ples daun, mentre le stelle bianche erano i cieli? E sapeva che sulla porta davanti a noi c’era, come sul suo stendardo, una stella a cinque punte – la stella di Betlemme – e che quella stella era un geroglifico sacro egiziano?

L’uomo indugiò per qualche istante sugli scalini del portico, poi all’improvviso se ne andò prendendo verso nord e ben presto scomparve alla nostra vista.

Christobel riportò l’attenzione sulla porta. Indicò la formella in cui compariva un uomo dalla lunga barba in groppa a un asino.


«È Cristo che entra a Gerusalemme?»

«Gli assomiglia molto, ma in realtà è Mosè che torna in Egitto in cerca dei suoi fratelli. Il bastone che ha in mano è la bacchetta magica con cui ha compiuto i miracoli davanti al faraone.»

Christobel andò a esaminare il pannello più da vicino. «Nel rotolo di pergamena che ha in mano non c’è scritto nulla!»

«È vero. Ma per un osservatore del XII secolo sarebbe stato ovvio che l’ingresso in Egitto di Mosè profetizzava l’entrata di Gesù a Gerusalemme, avvenuta anch’essa sopra un asino.»

La ragazza annuì. «È un’immagine iniziatica?»

«Per quelli che sanno, sì. L’entrata a Gerusalemme è il ritorno a casa, così come lo era, in fondo, il ritorno in Egitto: nella tradizione arcana l’esoterismo occidentale era il risultato della fusione di idee ebraiche ed egizie. È questo che “profetizza” il ritorno di Mosè. Ma l’immagine ha anche un altro significato, che riguarda la redenzione. Mentre Cristo non ha bisogno di redenzione spirituale, l’asino che lo trasporta si trasforma al contatto con il Salvatore. Gerusalemme è il simbolo del mondo spirituale, la cui soglia può essere varcata dagli iniziati. Neppure una sciocca creatura quale è l’asino può oltrepassare le sacre porte senza essere toccata dallo spirito.»

Christobel rimase in silenzio per un poco, poi osservò: «Troppo spesso dimentichiamo che il cristianesimo è nato dall’unione di antiche credenze ebraiche ed egizie».

Concedemmo a questa acuta osservazione il silenzio che meritava, annuendo.

«Le porte di San Zeno sono l’unico esempio di arte esoterica esistente a Verona?» chiese la donna.

Soppesammo la domanda per qualche istante, sorridendo al ricordo di un altro asino, poco lontano.

«Posso farti un indovinello?»

Christobel annuì con entusiasmo. «Come gli oracoli?»

«Sì. Nell’antico battistero, che ora si chiama San Giovanni in Fonte, accanto al Duomo di Verona, c’è un fonte battesimale monolitico, di forma ottagonale. Alcune sue parti furono probabilmente scolpite da Brioloto, che, attivo fra il 1189 e il 1220, eseguì anche alcune delle sculture della facciata di San Zeno. Su ognuno degli otto lati del sacro fonte c’è un’immagine cristiana. Sul lato quasi di fronte alla porta è raffigurato Cristo che, in groppa a un asino, fa il suo ingresso a Gerusalemme… Bene, entrando in chiesa osservate l’arco sovrastante la testa dell’asino; è stato modificato, l’unico fra i quaranta del fonte battesimale. Ora io mi chiedo: perché? Perché su quell’arco Brioloto avrebbe dovuto scolpire un gatto con un topo in bocca?»

La mia domanda le aveva incuriosite e dopo qualche istante Rachel e Christobel si misero in spalla lo zaino e imboccarono via Procopio, dirigendosi verso San Giovanni. Probabilmente non ci saremmo più incontrati. Le due ragazze, seguendo il nostro consiglio, sarebbero partite qualche ora dopo per Venezia per studiare i misteri astrologici racchiusi nella facciata del Palazzo Ducale.

Mark Hedsel, L'iniziato

7 marzo 2015

La Vergine e l'unicorno




Con quali altri simboli si traveste questa dea potente?

Consideriamo il mito medievale dell’unicorno, una creatura schiva, che non osa avvicinarsi agli esseri umani, i quali gli appaiono come alieni, lontani dalla luce delle stelle. L’unicorno prova stupore davanti alle cose del mondo, eppure è attratto dalla visione di una vergine immacolata, seduta su un poggio erboso.

La vergine, bella oltre ogni dire, è protetta da ogni lato da soldati con la spada sguainata. Benchè sia vero che in segreto i soldati la concupiscono, le loro spade sono tuttavia rivolte verso l’esterno, a difesa della vergine, perché a questo compito essi si sono votati divenendo servi di Marte.

L’unicorno avanza timidamente e si inginocchia davanti alla vergine nella quale riconosce la Regina del Cielo, la Vergine Celeste ammantata di stelle, che tiene fra le braccia un fastello di grano, simbolo delle messi di cui colmerà la Terra morente. L’unicorno posa il suo singolo corno nel grembo della Iside-Vergine innamorata, compiendo così l’atto cui tutti i soldati ambivano, ma che avevano avuto timore di compiere.

Il simbolismo del mito è trasparente a tal punto che non occorre neppure analizzarlo. I soldati impugnano la spada per tenere lontano il mondo esterno, mentre all’unicorno è spuntata una spada sul capo. Quel singolo corno è figlio delle facoltà immaginative.

Non sorprenderà forse scoprire che l’unicorno, la vergine Iside nelle sue molte forme, e le guardie compaiono in molte immagini alchemiche medievali, e anche nelle stampe popolari cristiane.

Mark Hedsel, L'iniziato

24 dicembre 2014

I segreti dell'arte profana nelle chiese medievali




Il maestro era già entrato. Lo seguirono uno a uno tutti gli allievi del gruppo. Noi fummo tra i primi e andammo a sederci in terza fila: né troppo lontano, né troppo vicino. Sul tavolino accanto alla sedia del maestro c’era un libro. Il maestro doveva essersi accorto che lo sbirciavamo, allungando il collo per leggerne il titolo.

«Witkowski» disse, prendendo in mano il volume e tambureggiando con le dita sulla copertina. «Il viaggio illustrato di Witkowski attraverso l’arte pagana nelle chiese medievali.»

Non disse altro finché il resto del gruppo non si fu seduto. Quando si fece silenzio, egli indicò il libro con un gesto della mano.

«Il grande alchimista Fulcanelli – al quale ho accennato più volte – fu affascinato da questo libro, e già solo questo sarebbe un buon motivo per guardarne le immagini. È sicuramente un volume molto utile per chi si interessa di sapere arcano. Chiunque compia un viaggio fra le chiese e le cattedrali di Francia dovrebbe portarlo con sé. Per essere un libro che si occupa di monumenti cristiani, è una guida all’arte pagana davvero originale.»

Intanto che parlava, il maestro cominciò a sfogliare il vecchio volume, con il volto raggiante di piacere.

«Adoro queste illustrazioni. Semplici incisioni, ma così stimolanti. Alcune immagini sono la prova che l’arte cristiana è stata completamente travisata dai moderni. Qualcuno oggi potrebbe pensare che la Festa dei pazzi, con tutta la licenziosità e il caos che la accompagnavano, costituisse un’eccezione, un ritorno a un’antica festività romana, un semplice imbarazzo per la Chiesa, un’isola inspiegabile di celebrazioni pagane in mezzo a un continente tutto cristiano. Ma non è affatto così. Le immagini profane che Witkowski ha raccolto nelle chiese e cattedrali d’Europa dimostrano come quello spirito che animava la festa fosse vivissimo nel Medioevo. La Festa dell’asino sgorgava da una forza vitale possente – una gioia primigenia – che è stata quasi interamente stravolta nell’era moderna, e che tuttavia sopravvive ancora, almeno in parte, nell’arte.

«Gli antichi si accostavano all’arte in modo molto diverso dal nostro. Il loro approccio non era affatto intellettuale. Capivano, con una profondità spirituale per noi quasi incomprensibile, che la vera arte spalancava le porte del mondo spirituale. Questo lo sentono ancora oggi le persone con una vita spirituale profonda: si racconta che Picasso, nel suo studio, tenesse coperti con un telo alcuni dei grandi capolavori da lui acquistati, perché, diceva, erano troppo potenti. È questo il modo giusto di accostarsi all’arte. Le nostre pinacoteche e i nostri musei dovrebbero essere luoghi di meditazione e non luoghi di incontri chiassosi, perché l’arte vera è la sentinella del mondo superiore.»

Marilyn, seduta in prima fila, domandò: «Se l’arte, come lei afferma, riguarda le nostre emozioni più che l’intelletto, ciò significa che la capacità di capire l’arte va ricondotta alle nostre facoltà astrali?»

«Sì, è così. La domanda che vi dovete porre è: quale parte di voi entra in gioco quando osservate un’opera d’arte? Se guarderete soltanto con l’occhio fisico, non vedrete niente di prezioso. Forse riesco a spiegarmi meglio con la musica. Se ascoltate un capolavoro – per esempio il Triplo concerto di Beethoven – soltanto con l’orecchio, non sentirete quasi nulla. Dovete ascoltarlo con tutto il corpo. Il corpo deve restare perfettamente immobile, per farsi cassa di risonanza del corpo eterico e di quello astrale. Soltanto quando i tre corpi – fisico, eterico e astrale – si muovono all’unisono si comincia a godere della musica. La stessa regola vale per l’arte visiva. Ma quando si contempla un quadro è un po’ più difficile dimenticare il corpo di quando si ascolta la musica.»

Marilyn intervenne di nuovo: «Questo approccio meditativo è connesso con l’esperienza estetica?»

«Sì. È anzi la fonte di ogni vera percezione della bellezza. L’esperienza estetica comporta una separazione nell’anima, in un certo senso una scissione, il distacco temporaneo dell’astrale dall’eterico. È un’esperienza di natura interamente spirituale, che nasce dal contatto con gli elementi segreti contenuti nelle opere d’arte. L’esoterista Goethe, all’inizio del XIX secolo, era consapevole di questo elemento magico insito nell’arte: ecco perché sosteneva che non si dovrebbe mai parlare di un quadro o di una scultura se non avendoli davanti agli occhi. Se l’opera d’arte è assente, l’esperienza estetica non può avvenire, si può parlare soltanto della sua parte morta, ossia dell’immagine fisica, senza coglierne l’interazione con il piano eterico e quello astrale. È questa una delle ragioni per cui la storia dell’arte è così esanime e priva di senso: perché si occupa dell’aspetto fisico delle opere artistiche e non di quelli eterico e astrale, che sono vivi e ne costituiscono l’aspetto veramente magico.»

Maria, una ragazza molto carina che era seduta qualche fila dietro di noi, osservò: «Lei ha parlato più volte di schermi occulti, ma non sono certa di avere ben capito che cosa questo significhi in campo artistico. So che cosa sono gli schermi occulti, ma non vedo quale uso se ne possa fare in arte. Dopo tutto, un’opera d’arte la vediamo per quello che è. Non capisco come quello che vediamo possa costituire anche la maschera di qualcosa che non si vede.»

«Cercherò di chiarirti le idee mostrandoti un paio di esempi di grande scultura medievale.»

Il maestro prese il libro di Witkowski e l’aprì su due pagine che contenevano tre illustrazioni.

«Passatevele e osservatele mentre parlo.»

Passò il libro a una giovane donna seduta in prima fila.


«La xilografia a sinistra rappresenta una composizione scultorea della chiesa medievale di St-Pierre a Moissac, nel Sud della Francia. Vi si riconosce una peccatrice, nuda, aggredita da creature che sembrano essere rospi e da serpenti. Un demonio la tiene per un braccio. L’immagine di destra proviene dallo stesso luogo e rappresenta due peccatori con sulle spalle due demoni.

«Un osservatore distratto potrebbe scambiare queste immagini per allegorie di peccatori all’inferno o in un purgatorio, quasi esortazioni visive a non cadere nel peccato.

«Una cosa deve essere subito chiara: gli scultori non intendevano raffigurare, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la vita all’inferno o al purgatorio. Le persone che vedete sono esseri umani normali, vivi, sono comuni peccatori. La donna aggredita dai serpenti è dissoluta, ecco perché i rospi mostruosi si interessano tanto alle sue parti intime e ai suoi seni, e perché il demone che l’afferra tiene il serpente in una posa così inequivocabilmente allusiva.

«I due uomini con i demoni sulle spalle sono un’allegoria del peccato dell’avarizia: quello seduto, che tiene strette le borse con il denaro, è un avaro, che rifiuta l’elemosina al mendicante.

«Ma i due non sono all’inferno: entrambi sono ritratti in forma eterica e astrale. L’artista li denuda, ce li mostra come li vedrebbe chi possiede in alto grado il dono della chiaroveggenza ed è capace di percepire sui piani spirituali. I due uomini sono forme simboliche del corpo eterico e di quello astrale: un vero veggente riuscirebbe a vedere i rettili e i demoni odiosi che si sono impossessati di loro.

«La donna nuda non è all’inferno. È raffigurata come un essere vivo, benché quello scolpito non sia il suo corpo fisico. La sua anima, a causa della sua predisposizione a cadere in un certo tipo di peccato, è divorata continuamente da creature mostruose. Il suo corpo fisico può essere bello e attraente quanto si vuole, ma il suo corpo eterico – in conseguenza del peccato – è ottenebrato dai demoni che la divorano. Tuttavia l’immagine, lo ribadisco, non raffigura un peccatore all’inferno, bensì un corpo eterico malato qui, sulla Terra. È un corpo che ha un bisogno disperato di purificazione, di guarigione. Guardandolo, si capisce perché Paracelso chiamasse l’eterico “il corpo dei veleni”.

«La donna è nuda forse perché così il suo peccato, che è la lussuria, traspare con più evidenza. Ma la sua nudità, in così netto contrasto con le figure vestite degli uomini, ha anche un altro significato: indica che si tratta soltanto del suo corpo eterico, il corpo che gli artisti di Moissac avrebbero chiamato ens veneni, o vegetabilis. La donna ha le braccia alzate e con le mani si afferra i capelli: questo è il gesto dell’anima eterica. È lo stesso che compare nelle immagini cristiane dipinte o graffite sui muri delle catacombe a Roma, è l’atteggiamento chiamato “orans”, della preghiera, alla cui origine c’è in realtà il geroglifico egizio ka.

«Tutti questi indizi non lasciano dubbi sul fatto che la peccatrice sia una persona viva, e noi abbiamo il privilegio di vedere lo stato del suo corpo eterico. Ecco, dunque, Maria, un esempio di schermo occulto.

«Adesso osserva la seconda xilografia della scultura di Moissac. Un veggente capirebbe subito che il mendicante si avvicina all’avaro sul piano astrale, e che a dirigere la transazione sono i demoni, i quali, in un certo senso, aggirano l’ego degli uomini. Si tratta di una transazione demoniaca, non umana. I demoni stanno in spalla ai due uomini, a dimostrazione che se ne sono impossessati. Non dimenticare che possessione deriva da una parola latina, che significa letteralmente “star seduto su qualcosa”. Quando, recitando il Padre Nostro, preghiamo Dio di non indurci in tentazione, chiediamo di trovare dentro il nostro ego la forza di resistere alle tenebre, che i demoni calano costantemente sul nostro corpo astrale.

«Il mendicante e l’avaro, al contrario della donna dai facili costumi, sono vestiti. Questo in parte può dipendere dal fatto che lo scultore intendeva esprimere il rango sociale di ciascuno dei due: il primo è avvolto in panni laceri e ha una gamba nuda, mentre l’uomo seduto indossa abiti che ne testimoniano la ricchezza. Ma c’è anche un’altra ragione per cui le due figure sono vestite: gli indumenti indicano che sono rappresentate come se fossero a un livello successivo rispetto a quello eterico, ossia sul piano astrale, che a quell’epoca si chiamava animalis o ens astrale.

«Quegli abiti costituiscono di certo una forma di travestimento: nessuno dei due infatti ha le scarpe. In base alla simbologia arcana, questo significa che non sono sulla Terra materiale. L’elemento più “terreno” di questa immagine è la pesante borsa di denaro: è legata al collo dell’avaro, come una punizione, e pesa sulla sua anima, tirandola verso il basso. La sua funzione è la stessa del fagotto che il Matto dei tarocchi porta in spalla.

«I demoni che si sono “impossessati” dei due uomini sono esseri astrali: le ali di cui è dotato quello di sinistra indicano che può volare sul piano astrale. Le corna dell’altro, a forma di falce, ci ricordano il legame dei demoni con la Luna. Ma come la donna non sa che il suo corpo eterico è divorato dai mostri, così l’avaro ignora che il suo corpo astrale è oppresso dal denaro e dal demone che lo serra alla gola con le ginocchia. Non si tratta tanto di simbolismo, quanto di ciò che può esser percepito sul piano spirituale da chi ha occhi per vedere.»

Prese di nuovo il libro.

«In questo splendido volume di Witkowski c’è un’altra immagine che costituisce una sorta di omelia sulla natura dell’esoterismo e degli schermi occulti.


«A pagina 181…» sfogliò velocemente e poi porse di nuovo il libro aperto a un allievo seduto in prima fila perché guardasse la figura e quindi la passasse agli altri «troverete una xilografia molto interessante. È la riproduzione di una miniatura – conservata alla Bibliothèque Nationale Française – in cui è rappresentata la celebrazione di un battesimo. Alcuni studiosi affermano trattarsi di San Giovanni che battezza Maria Maddalena, ma la cosa in sé non ha grande importanza. Nei primi secoli il battesimo avveniva per immersione totale, ed è per questo che la donna è nuda dentro una grande tinozza. Le onde sul pavimento non sono acqua che trabocca dal “fonte battesimale”, come ci si potrebbe aspettare, ma indicano simbolicamente che il Battista è nel fiume Giordano. La donna, con le braccia alzate, compie esattamente lo stesso gesto eterico che abbiamo notato poco fa. Nella mano sinistra San Giovanni regge un libro – presumibilmente sta leggendo le formule rituali – mentre con la destra sfiora il capo chino della battezzanda. La scena, inutile dirlo, è iniziatica.

«Osservate il contrasto fra la pace e la compostezza della cerimonia e il tumulto che si è sollevato davanti al battistero. Sette uomini si azzuffano per sbirciare al suo interno attraverso fori e fessure: ma non è il battesimo che li interessa, bensì la donna nuda. Uno di loro è in un tale stato di eccitazione che sviene; un altro si strappa i capelli perché non riesce a spiare. Tutti sono travolti dalle loro emozioni astrali.

«Se la composta scena interna è iniziatica, il disordine di quella esterna è sicuramente la rappresentazione dell’ordinaria follia del mondo. Quegli uomini sono incapaci di capire la natura spirituale dell’evento. Non vedono altro che i seni scoperti della donna: è come se guardassero la forma nuda di Iside, ma non ne cogliessero il senso interiore.

«L’immagine ci offre un quadro davvero straordinario del rapporto che i misteri intrattengono con il mondo normale. In un certo senso si può dire che l’iniziazione non è affatto nascosta. È vero che la porta del battistero è chiusa, come è giusto che sia. Nonostante la confusione all’esterno, dentro prosegue l’intenso rituale, il quale è come se si svolgesse in uno spazio e in un tempo diversi da quelli in cui vivono gli uomini che stanno fuori. L’analogia con la verità dell’iniziazione è perfetta: l’iniziazione appartiene davvero a uno spazio e a un tempo differenti da quelli del mondo quotidiano, i cui occupanti non sono in grado di riconoscere non solo l’iniziazione per quello che è, ma neppure gli iniziati, anche quando li hanno proprio sotto gli occhi.

«Quei sette uomini sono incapaci di comprendere veramente quello che accade. Sono distratti dallo schermo occulto, ossia i seni e il corpo nudo della donna, che li risucchiano a livello astrale. Sono accecati dall’intensa passione, generata dal loro corpo astrale. Ognuno si autoacceca, probabilmente con uno dei sette peccati mortali che sgorgano da tale corpo. Se solo riuscissero a spostarsi su un altro livello, in una parte diversa di sé, più alta, le squame astrali cadrebbero dai loro occhi ed essi si renderebbero conto di assistere a un mistero, a un’iniziazione.

«Come questi uomini, anche i partecipanti alla Festa dei pazzi vedevano soltanto un somaro che, ragliando in modo sacrilego, veniva condotto in chiesa. Non scorgevano la saggezza nascosta dietro il velo dei simboli. Se soltanto quanti durante la Festa dei pazzi si comportavano come asini fossero riusciti a ritrarsi in se stessi per un solo istante e a ritrovare la pace interiore… se soltanto fossero stati capaci di trasferirsi in una parte diversa di sé, si sarebbero resi conto di assistere a un mistero profondo.»

Mark Hedsel, L'iniziato

19 dicembre 2014

Il significato arcano della Festa dell'asino




«Nel suo libro sul segreto delle cattedrali, Fulcanelli osserva che l’asino della Festa dei pazzi aveva un tempo percorso le vie di Gerusalemme. Dice che aveva calpestato quelle strade con il suo sabot. So che sabot significa sia zoccolo dell’asino sia calzatura di legno, ma mi chiedo se la parola non abbia qualche significato arcano che faccia lume sulla Festa dei pazzi.»

Il maestro annuì. «Sì, sabot è una parola molto interessante. Ma per comprenderne il significato riposto occorre conoscere anche i segreti nascosti in quella replica pagana dell’entrata dell’asino a Gerusalemme che è la Festa dei pazzi, e il significato arcano dello stesso asino. In questa celebrazione anarchica, chiamata a volte anche Festa dell’asino, l’animale veniva sospinto oltre il portale della chiesa o della cattedrale, dentro la navata, in una oscena imitazione dell’ingresso a Gerusalemme (la navata che i pazzi in maschera percorrono è imparentata con la parola nave, associazione che non sfuggì all’autore della Narranschiff, La nave dei folli). Nelle preghiere blasfeme che seguivano, i presenti anziché dire “Amen”, ragliavano. Ciò potrebbe sembrare un sacrilegio, anche nel contesto della Festa dei pazzi in cui pure il dileggio e la licenziosità erano all’ordine del giorno. Ma noi dobbiamo porci un’altra domanda: quel sacrilegio aveva un significato arcano?

«In ebraico l’asino è hamor, e athon l’asina. Nella Bibbia, quando Zaccaria profetizza che il Signore arriverà in groppa a un asino – profezia che si compirà con l’entrata di Gesù a Gerusalemme – egli usa la parola athon. L’ingresso di Gesù in groppa a un asino viene di solito interpretato come un segno di umiltà, della riluttanza di Cristo a presentarsi come re. Ma l’episodio può essere visto anche diversamente. Poiché in Palestina era proibito andare a cavallo (un divieto infranto, a quanto pare, da Salomone), l’asino godeva di una considerazione diversa da quella attuale: non era affatto una creatura degradante, dal momento che se ne servivano anche i re e i ricchi (sia uomini sia donne), anzi, il termine “asina” nella forma plurale athona era spesso usato per indicare i potenti e i danarosi. È facile capire perché gli alchimisti (molti dei quali conoscevano l’ebraico, indispensabile per praticare la loro arte) si siano così entusiasmati alla storia dell’asino: nella loro Lingua Verde athona assomigliava troppo ad atanor, per non risvegliare il loro interesse. L’atanor era un forno ad alimentazione continua che gli alchimisti usavano per mantenere costante la temperatura: non sorprende quindi di vedere, in opere di alchimia, immagini alchemiche di Saturno o di “re” solari (che simboleggiano i gradi iniziatici) situate sopra i forni.

«Gli studiosi sono sempre stati in disaccordo sull’etimologia di “Gerusalemme”, ma nella cabala, la legge esoterica degli ebrei, essa significa “fondamento di pace”. Questa interpretazione ricorda l’importanza che veniva attribuita al tempio di Salomone, il quale si ritiene sorgesse in origine in questa città. L’asino, che durante il Festum Fatuorum oltrepassava con il suo cavaliere la soglia della chiesa o della cattedrale, entrava in un certo senso a Gerusalemme, ossia nella pace. Ma quest’asino, che porta, per così dire, in groppa un’imitazione di Cristo, ha gli zoccoli, che in francese si chiamano sabots. Fulcanelli ha perfettamente ragione nel collegare sabot sia con Saba sia con Caba. Torneremo sulla prima parola tra un momento, per ora osserviamo che Caba rinvia al mistero della Cabala, la tradizione esoterica degli ebrei.

«La terra di Saba è in realtà la terra dei sabei. Nell’antica Persia i sabei erano famosi maghi-astrologi, così potenti, che i maghi medievali usavano il loro nome come parola magica: e infatti “sabei” compare spesso sui sigilli e negli incantesimi. 

L’idea del “potere magico” del nome “sabei” è filtrata anche nella mitologia medievale, tant’è vero che nella Legenda aurea, la regina di Saba, grazie al suo potere magico di chiaroveggenza, riconosce in una tavola di legno, gettata come passerella su un fiume, la Croce di Cristo. Ma la cosa che qui ci interessa è che i sabei erano maghi famosi, e che la parola francese Saba con cui vengono indicati è molto vicina a sabots, “zoccoli”.

«Ma c’è dell’altro: Saba è molto simile a sabba, termine con cui si indicavano i convegni delle streghe: ancora oggi in francese faire un sabbat significa “fare un fracasso infernale”. Espressioni come queste ci avvicinano all’esuberanza sfrenata che doveva caratterizzare la Festa dei pazzi.

«Siamo così arrivati a uno dei grandi segreti del Medioevo. La parodia della Chiesa – espressa nella pietra attraverso particolari come l’asino in abito talare, o in modo più effimero nelle rappresentazioni dell’annuale Festa dei pazzi – andava ben al di là della farsa. Alcuni iniziati, nel silenzio delle loro scuole, avevano da tempo capito che la Chiesa, abbandonato il suo fine esoterico, era diventata un organismo burocratico simile all’Impero romano. Furono questi iniziati a inventare, o comunque a ispirare, simboli segreti come quello dell’asino per attaccare una Chiesa troppo compiacente. In questo modo il frastuono del sabba veniva portato oltre i sacri portali della Gerusalemme simbolica, che avrebbe dovuto essere un luogo di pace, e si comunicava alla Chiesa che il suo andazzo non era passato inosservato. La domanda che questa festa anarchica poneva era: chi è il Matto? L’asino che porta Cristo oppure la Chiesa che ha cessato di portare Cristo?

«Tra i documenti iconografici più interessanti del periodo in cui la Festa dei pazzi era così popolare si trovano le filigrane riproducenti la figura dell’asino: in mezzo alle grandi orecchie dell’animale è inserita una stella a cinque punte. Harold Bayley, studioso della materia, sostiene che questi segni appartengono alla lingua occulta di gruppi esoterici perseguitati dalla Chiesa: essi sono, dice, un’immagine dell’asino glorificato, iniziato, ossia dell’asino che ha riportato Mosè in Egitto e Cristo a Gerusalemme. 

«E dunque anche le filigrane indicano l’esistenza di una via iniziatica asinina: è la Via del Matto, e a guidarla è una stella.»

Mark Hedsel, L'iniziato