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18 luglio 2015

La danza della gru




Anche la passione che ho rivelato a te e agli altri nella danza in tondo, la chiamerei un mistero.
(Cristo a Giovanni dopo la Passione, Atti di Giovanni)

Raccontano i miti greci come Teseo, dopo aver ucciso il Minotauro a Creta, facesse vela verso l’isola sacra di Delo, portando con sé Arianna e alcuni dei giovani e delle vergini ateniesi che aveva salvato. Raggiunta la terra ferma, Teseo e i compagni si diedero a una danza che riprendeva nei suoi movimenti le intricata sinuosità del labirinto da cui erano fuggiti. Quella danza era un’espressione di gioia traboccante, una celebrazione della fuga o il segno di un substrato esoterico legato al mito del labirinto?

Plutarco che la descrive, la chiama «danza della gru», perché, dicono i critici, i danzatori ne imitano i movimenti. Eppure la danza labirintica di cui Plutarco parla non assomiglia affatto a quella di un uccello.

Plutarco era, lo dice egli stesso, un iniziato e pertanto era abituato a celare le proprie verità ricorrendo alla Lingua Verde, per sviare i non adepti. La parola che egli usa per definire la danza è geranos: che essa non abbia qualche altro significato, sfuggito agli interpreti? È un’ipotesi plausibile, dal momento che in greco geraneion indicava una sostanza alchemica.

In realtà non è necessario setacciare i documenti dell’arte spagirica per trovare un significato più idoneo alla «danza della gru»: il termine greco, infatti, oltre a denotare quella che gli ornitologi chiamano la Gru cinerea, indicava anche la comune gru, la macchina usata per sollevare i pesi, una leva meccanica. I danzatori di Delo, che festeggiavano la vittoria sul Minotauro, ballavano forse con movenze tali da essere sollevati al di fuori del corpo fisico, verso le stelle?

È una domanda tutt’altro che peregrina, poiché proprio questo è lo scopo precipuo di alcune danze rituali, come indicano chiaramente i volteggi dei dervisci sufi, che ruotano in tondo per diventare tutt’uno con Dio e conquistare la quiete interiore. In Italia, esistevano scuole esoteriche di danza molto prima che i sufi introducessero le loro evoluzioni.

I disegni complessi tracciati dal vero danzatore non saranno per caso lo specchio del movimento cosmico, di quella che gli antichi bramini indiani chiamavano la danza di Shiva, divinità che rappresentava le forze generatrici nelle religioni vediche? I discepoli dell’iniziato Pitagora consideravano la danza un tentativo di riprodurre il moto dei pianeti e delle stelle, attribuendole uno scopo che è identico a quello che si propone la vera meditazione.

Un documento, definito «il più raro dei manoscritti occulti», descrive il viaggio che un neofita, librandosi al di fuori dal corpo, compie nello spazio: racconta dunque costui di avere goduto per un istante del dono di innalzarsi sulla superficie della Terra. Dapprima egli viene sollevato da una guida invisibile e sale così in alto che il nostro pianeta gli appare come una vaga nuvola.

«Fui portato» ricorda «a un’altezza immensa. La mia guida invisibile mi abbandonò e io discesi di nuovo. A lungo rotolai nello spazio…» Poi la guida lo solleva ancora, conducendolo a distanze incommensurabili. «Ho visto globi volteggiare intorno a me e terre gravitare verso i miei piedi…»

Nonostante la paura che lo prende, l’esperienza che questo neofita racconta non è tanto una prova quanto un preludio di quello che ora viene chiamato viaggio astrale, un viaggio nel mondo sidereo dei regni spirituali.

Le descrizioni di viaggi astrali, su fino alle stelle, non sono affatto una rarità nella letteratura arcana. Ma in questo innalzarsi, dietro una guida invisibile, non potrebbe forse esservi la conferma del significato esoterico che abbiamo suggerito per la «danza della gru»? Narrando il suo viaggio astrale, l’autore, che potrebbe essere il conte di Saint-Germain, era sicuramente convinto di raccontare un episodio della danza descritta da Plutarco. Ogni capitolo di questo importante libro è preceduto da un’immagine esoterica. Quella relativa al racconto dell’innalzamento nei cieli contiene tre immagini e quattro blocchi di scritte in un codice segreto. Uno dei tre oggetti è un’antica ara, su cui arde una fiamma ascensionale. Un secondo è un candeliere con un’unica candela, la cui base è formata da serpenti di bronzo intrecciati. Il terzo è una gru in volo, con le zampe e le ali nere, il corpo argenteo, la testa rossa e il collo dorato. È dunque un uccello alchemico: il nero rappresenta Saturno, l’argento è la Luna, il rosso Marte e l’oro è il Sole. Come la fiamma sull’altare e la candela sollevano verso l’alto l’anima della luce, altrettanto farà la gru.

La nostra tesi è che chi entra in uno stato di meditazione profonda, sia attraverso l’immobilità sia attraverso la danza, viene sollevato verso il mondo spirituale da forze invisibili, esattamente come fa una gru. Viviamo in un pianeta che è in perenne danza. La sua coreografia è ancora segreta, anche per gli astronomi, perché se è vero che la Terra si muove in circolo intorno al Sole, è anche vero che oscilla, e che in termini cosmici il suo centro solare è ben lontano dall’essere fisso. Chi saprebbe descrivere con precisione la vera traiettoria di un movimento così complesso? Noi stessi facciamo parte del cosmo, della Terra, e di questa traiettoria e danza cosmica. Quanti cercano dentro di sé la quiete per raggiungere il regno dello spirito sono già in movimento, per il fatto stesso di dimorare sulla Terra. Quali che siano le motivazioni di chi medita, ogni meditazione avviene nella danza.

La sostanza di cui è fatto il mondo è un’immagine riflessa sulla superficie immobile di uno stagno. Senza la superficie, in cui acqua e aria sembrano incontrarsi, non ci sarebbe alcun riflesso, e il riflesso è l’unica cosa che esiste. La speranza più grande per l’anima che si evolve fra tanta illusione sta nella meditazione, nel fortificare la mente. Questa fissità nel bel mezzo del cerchio di fuoco roteante in cui danza il dio Shiva è il silenzio davanti al pulsare del cuore della natura. La speranza, come ha detto T.S. Eliot, sta «nel punto immobile del mondo che gira».

Il silenzio interiore che nasce dalla meditazione è minacciato dall’interno e dall’esterno. A volte i pericoli sono come onde lievi che lambiscono la riva; a volte sono furibondi marosi che si schiantano contro il litorale. Come la persona retta che ha commesso una cattiva azione ha periodici sensi di colpa ogni volta che riaffiorano i ricordi, così tutti gli esseri umani immersi nella vita sono soggetti ad attacchi di karma negativo. Sia le aggressioni interiori, sia quelle esteriori, che i saggi orientali chiamano vasana, nascono dal karma passato. I vasana affiorano alla coscienza, uno dopo l’altro: sono, dice la letteratura sanscrita, come onde sulla sabbia. I primi monaci cristiani non erano poetici come gli yogin indiani e propendevano piuttosto per immagini teriomorfe: le onde del mare erano ai loro occhi animali e demoni mostruosi che distraevano la mente con fantasie deliranti, maschere dietro cui si nascondevano i sette peccati capitali.

Qual è la natura di questa danza della gru, danza della vita, in cui siamo lambiti da onde karmiche? La danza esterna – sia che ci innalzi fino ai cieli, sia che ci faccia semplicemente roteare nello spazio – dipende in realtà da un’altra danza: quella del sangue. È la circolazione sanguigna che stabilisce il ritmo della nostra danza intima: è un mare interno, le cui onde sono anch’esse simili a vasana e misurano inesorabilmente il flusso e il riflusso degli imperativi karmici.

Mark Hedsel, L'iniziato

27 marzo 2015

Arte esoterica a Verona: la porta bronzea di San Zeno




Quel martedì pomeriggio, quando parcheggiammo l’automobile nella piazza davanti a San Zeno, Rachel e Christobel erano accanto a uno dei leoni marmorei che stanno a guardia del portico della chiesa. Fummo sorpresi di vederle, perché avevamo accennato solo vagamente ad un incontro, e questo quasi due settimane prima; inoltre, sono così tante le bellezze dell’Italia settentrionale che possono tentare un viaggiatore facendolo deviare dal suo itinerario! Qualche istante dopo eravamo già sotto il portico ed esaminavamo le splendide formelle della porta bronzea. Era un pomeriggio caldo, soffuso di quella piacevole indolenza che si coglie in quasi tutte le piazze italiane, eppure in quell’aria pigra percepivamo un’attesa, come se stesse per accadere qualcosa di importante.

Per qualche istante guardammo in silenzio i pannelli: sotto i raggi del Sole i bassorilievi si stagliavano nitidi in mezzo alle ombre.

«Di che periodo sono?» chiese Christobel.

«Alcuni del XII, altri del XIII secolo.»

«Come quelli della Sacra di San Michele?»

«Sì, forse la Sacra è un poco più antica.»

«Ci sono elementi astrologici?» domandò Rachel.

«Non ovvi» replicammo. «Ma che ne dite di quello?» e indicammo uno dei pannelli.


«È un’acrobata?»

«No, non direi. È Salomè che danza.» Capivamo perché Rachel avesse pensato all’acrobata. Salomè, presa dal desiderio di compiacere Erode, si contorce fino a formare un cerchio. Con una mano si afferra un piede e lo tira verso la testa, danzando, quasi letteralmente, in tondo. «Osservate come la testa sfiori i piedi. Questa è astrologia. O almeno, astrologia medievale.»

«Perché?» la voce di Rachel era dubbiosa.

«Ogni parte dell’essere umano è collegata con una parte del cosmo.»

Avremmo voluto avere davanti l’immagine medievale dell’uomo zodiacale per illustrare i segni che governano il corpo umano, mentre spiegavamo: «La testa è sotto il segno dell’Ariete, la gola del Toro… i piedi dei Pesci. Perciò la testa e i piedi sono governati dai due punti estremi dello zodiaco. Nel cerchio zodiacale i due segni si toccano: i piedi dei Pesci incontrano la testa dell’Ariete. Salomè imita lo zodiaco, unendo il passato dell’Ariete al futuro dei Pesci. I primi cristiani eseguivano danze sacre, nel corso delle quali cercavano di sintonizzare il corpo con i movimenti dei pianeti. Questa è vera astrologia.»

«Salomè sembra un pesce» osservò Christobel.

«Sì, anche questo fa parte del simbolismo. In un certo senso, Salomè è un pesce. Guardate.» Indicammo un punto sulla destra del pannello. «Ecco di nuovo Salomè, con il capo reciso del Battista. Lei è il Pesce, e San Giovanni è l’Ariete: un altro simbolismo cosmico.»

L’uso del pannello offriva la possibilità di realizzare quella che i critici moderni chiamano una «rappresentazione continua»: il tempo viene condensato, e azioni che nella narrazione sono separate vengono raffigurate su un unico piano spaziale. È una tecnica molto antica, risalente all’arte egizia, fondata sul concetto che l’immagine è eterna, ossia è «al di fuori del tempo».

«Ci sono pesci in diversi punti» osservò Rachel. «Guardate, persino sulle foglie.» Quelli di alcune formelle sembravano quasi disegni astratti, con foglie e rami fra cui si annidavano uccelli e pesci.

«Sì.» annuimmo, sorridendo. C’erano due pesci sotto due uccelli e formavano una croce. «Forse vi meraviglia vedere i pesci sugli alberi, come nei racconti biblici, ma non sono stati messi lì semplicemente per stupire. Le foglie e i rami sono un simbolo medievale per quello che noi oggi chiamiamo l’eterico, ma che lo scultore avrebbe probabilmente chiamato quintessenza

«Il quinto elemento?»

«Sì. L’elemento invisibile che tiene uniti gli altri quattro, senza il quale regnerebbe eterna discordia nel patto fra le cose.» Eravamo scivolati, senza accorgercene, nelle citazioni poetiche.

«Quella stessa quintessenza di cui ci ha parlato alla Scala dei morti?» domandò Rachel.

«Proprio quella. Se osservate bene, vi accorgerete che in realtà l’intero pannello è un’allegoria del quinto elemento. Gli uccelli sono l’Aria, i pesci l’Acqua, le piante la Terra e l’orifizio a forma di fiamma fra gli uccelli e i pesci è il Fuoco. Al centro del fuoco ci sono le radiazioni cosmiche del quinto elemento.»

«E pensare che credevo bastasse conoscere la Bibbia per capire l’arte cristiana» disse con una smorfia Rachel.

Scoppiammo tutti e tre a ridere, più che altro per l’espressione buffa comparsa sul viso di Rachel. «Eppure anche la Bibbia ha livelli di simbolismo ancora inesplorati.» Pensieri sulla complessità delle metafore delle Scritture ci attraversarono come un lampo la mente, ma non volevamo fare discorsi troppo complicati con le due ragazze. Tuttavia, una o due cose era forse il caso di spiegarle.

«Non tutti i bronzi sono in realtà di ispirazione biblica; alcuni sono basati sulla Legenda Aurea, una raccolta di miti, leggende e mezze verità sulla vita dei santi, trascritta da Giacomo da Varazze più o meno nello stesso periodo in cui furono scolpite queste porte. La formella con San Zeno che pesca racconta proprio un episodio della Legenda Aurea

«Ma per lo meno qui il simbolismo è cristiano» osservò Christobel, che, essendo una credente convinta, era stata visibilmente turbata dalle immagini pagane della Sacra di San Michele.

«Se ti interessa il simbolismo cristiano, guarda quella crocifissione. Osserva come il Sole irradia la sua luce verso l’esterno. La testa al centro di quel cerchio è quella di Michele, l’arcangelo del Sole.»


«E chi è l’angelo sulla Luna?» domandò. La figura alata spuntava dalla falce di Luna, con le punte rivolte verso l’alto, come una barchetta.

«È Gabriele, l’arcangelo della Luna. La Luna sovrasta la mano destra di Cristo e il Sole la sinistra. La Luna a barchetta è il simbolo dell’Acqua, mentre il Sole è il simbolo del Fuoco. Sono le due forze opposte del cosmo: nella concezione medievale il fuoco sale, mentre l’acqua scende. E tuttavia il mistero cristiano consiste proprio nel «miracolo» del fuoco che scende. Guarda: c’è un punto in cui la luce del Sole assume la forma di un’ala, si distacca dal disco solare e si posa sulla corona di spine di Cristo; questo significa che Cristo, benché crocifisso e morto, è ancora vivo. È vivo nella quintessenza.»

«Se non ricordo male» disse Christobel, «ci fu un’eclisse al momento della Crocifissione.»

«Sì, le tenebre oscurarono la faccia della Terra perché il Sole si era spento, o comunque qualcosa era accaduto. Gli artisti sono sempre stati affascinati dal significato simbolico dell’incontro tra il Sole e la Luna, in particolare nei dipinti che hanno per soggetto la Crocifissione. In questo pannello la luce ricompare in una forma più elevata, come corpo di Cristo. Il Sole-Zodiaco proietta la sua luce su Gesù in croce, affinché, per suo tramite, l’umanità possa fruirne. Esiste un nesso fra questo simbolismo e quello dell’Ariete e dei Pesci contenuto nel pannello di Salomè. Nella Crocifissione la luce piove sul capo di Cristo e i due uomini ai lati della croce sfiorano i piedi di Gesù con i loro piedi. È la stessa allegoria dell’Ariete e dei Pesci. In termini strettamente cristiani è un commento ai primi versetti del Vangelo di Giovanni.»

«E i due uomini? Uno ha in mano uno strumento di tortura. Chi sarebbe?»

«È Nicodemo. Ha le tenaglie. Con quelle strapperà le unghie dalle mani di Cristo.»

«E l’altro, quello che cinge Cristo con le braccia?»

«Quello è Giuseppe d’Arimatea, che accompagnerà Gesù nel sepolcro. È lui che, secondo la leggenda, ha portato in Inghilterra il Graal e l’ha sepolto a Glastonbury. Il suo piede tocca quello di Cristo. Di nuovo i Pesci. Indicano che Giuseppe d’Arimatea è diventato pescatore di uomini sotto la guida di un Pesce. Diversi secoli dopo la realizzazione di questa porta, William Blake scrisse poesie ed eseguì disegni sul tema di Giuseppe d’Arimatea. Blake sapeva cogliere i simbolismi nascosti, e nel racconto della sepoltura di Cristo percepì un significato molto profondo. Era convinto che Giuseppe fosse in segreto un discepolo di Cristo e fosse poi giunto fino in Inghilterra, portando con sé il Graal, che aveva sepolto su un colle, così come aveva sepolto il corpo di Cristo in una caverna nella roccia.»

Le due ragazze osservarono la porta con un rinnovato interesse. Rachel cominciò a contare i raggi del Sole. Erano ottantotto, come le fiamme del cerchio di fuoco del Signore della danza, Shiva.

Christobel a sua volta contò i pesci sparsi nei vari pannelli. Arretrammo di qualche passo e restammo a guardare. Era affascinante vedere un’opera esoterica irradiare la sua influenza e trasmettere i suoi simboli arcani ancora dopo tanti secoli.

Appena prima, mentre parlavamo, avevamo notato un uomo allampanato, pantaloncini e camicia a scacchi aperta sul collo, con la faccia cotta dal Sole e un sorriso cordiale. Si aggirava nei dintorni, abbastanza vicino per ascoltare le nostre parole. In spalla aveva un grosso zaino sul quale era cucita una bandiera a stelle e strisce. Chissà se sapeva che quella bandiera era un simbolo segreto e che le strisce rappresentavano il ples daun, mentre le stelle bianche erano i cieli? E sapeva che sulla porta davanti a noi c’era, come sul suo stendardo, una stella a cinque punte – la stella di Betlemme – e che quella stella era un geroglifico sacro egiziano?

L’uomo indugiò per qualche istante sugli scalini del portico, poi all’improvviso se ne andò prendendo verso nord e ben presto scomparve alla nostra vista.

Christobel riportò l’attenzione sulla porta. Indicò la formella in cui compariva un uomo dalla lunga barba in groppa a un asino.


«È Cristo che entra a Gerusalemme?»

«Gli assomiglia molto, ma in realtà è Mosè che torna in Egitto in cerca dei suoi fratelli. Il bastone che ha in mano è la bacchetta magica con cui ha compiuto i miracoli davanti al faraone.»

Christobel andò a esaminare il pannello più da vicino. «Nel rotolo di pergamena che ha in mano non c’è scritto nulla!»

«È vero. Ma per un osservatore del XII secolo sarebbe stato ovvio che l’ingresso in Egitto di Mosè profetizzava l’entrata di Gesù a Gerusalemme, avvenuta anch’essa sopra un asino.»

La ragazza annuì. «È un’immagine iniziatica?»

«Per quelli che sanno, sì. L’entrata a Gerusalemme è il ritorno a casa, così come lo era, in fondo, il ritorno in Egitto: nella tradizione arcana l’esoterismo occidentale era il risultato della fusione di idee ebraiche ed egizie. È questo che “profetizza” il ritorno di Mosè. Ma l’immagine ha anche un altro significato, che riguarda la redenzione. Mentre Cristo non ha bisogno di redenzione spirituale, l’asino che lo trasporta si trasforma al contatto con il Salvatore. Gerusalemme è il simbolo del mondo spirituale, la cui soglia può essere varcata dagli iniziati. Neppure una sciocca creatura quale è l’asino può oltrepassare le sacre porte senza essere toccata dallo spirito.»

Christobel rimase in silenzio per un poco, poi osservò: «Troppo spesso dimentichiamo che il cristianesimo è nato dall’unione di antiche credenze ebraiche ed egizie».

Concedemmo a questa acuta osservazione il silenzio che meritava, annuendo.

«Le porte di San Zeno sono l’unico esempio di arte esoterica esistente a Verona?» chiese la donna.

Soppesammo la domanda per qualche istante, sorridendo al ricordo di un altro asino, poco lontano.

«Posso farti un indovinello?»

Christobel annuì con entusiasmo. «Come gli oracoli?»

«Sì. Nell’antico battistero, che ora si chiama San Giovanni in Fonte, accanto al Duomo di Verona, c’è un fonte battesimale monolitico, di forma ottagonale. Alcune sue parti furono probabilmente scolpite da Brioloto, che, attivo fra il 1189 e il 1220, eseguì anche alcune delle sculture della facciata di San Zeno. Su ognuno degli otto lati del sacro fonte c’è un’immagine cristiana. Sul lato quasi di fronte alla porta è raffigurato Cristo che, in groppa a un asino, fa il suo ingresso a Gerusalemme… Bene, entrando in chiesa osservate l’arco sovrastante la testa dell’asino; è stato modificato, l’unico fra i quaranta del fonte battesimale. Ora io mi chiedo: perché? Perché su quell’arco Brioloto avrebbe dovuto scolpire un gatto con un topo in bocca?»

La mia domanda le aveva incuriosite e dopo qualche istante Rachel e Christobel si misero in spalla lo zaino e imboccarono via Procopio, dirigendosi verso San Giovanni. Probabilmente non ci saremmo più incontrati. Le due ragazze, seguendo il nostro consiglio, sarebbero partite qualche ora dopo per Venezia per studiare i misteri astrologici racchiusi nella facciata del Palazzo Ducale.

Mark Hedsel, L'iniziato

4 marzo 2015

L'iniziazione di Lucio ai misteri di Iside




Nella vibrante sezione finale dell’Asino d’oro, è al tempo della Luna piena che Lucio – stanco di vivere i suoi giorni rinchiuso nella pelle dell’asino – rivolge una preghiera a Iside, la dea velata. È la preghiera che finalmente lo libererà dalla sua forma animale, restituendolo a quella umana. All’improvvisa metamorfosi Lucio si scopre nudo in mezzo a una processione in onore di Iside: il corteo avanza serpeggiando verso il luogo in cui si celebrano i riti di iniziazione ai misteri isiaci.

Apuleio intreccia dunque una parabola al suo racconto: l’asino, che era stato costretto a recitare la parte del matto, viene condotto alla luce di Iside su un piano più alto del proprio io, che gli permette di spogliarsi del suo giogo bestiale.

Lucio sente che non riuscirà mai a ringraziare a sufficienza la dea per un tale dono – «e non basterebbero neppure mille bocche e mille lingue, né un eterno instancabile flusso di parole».

Già radicato in Grecia ai primi del IV secolo a.C., il culto di Iside fu sempre il più diffuso fra quelli dedicati alle divinità egizie, come Serapide e Anubis, in onore dei quali greci e romani eressero templi. I misteri di Iside si sono tramandati nella letteratura ermetica, nei miti sulla verginità e in quelli riguardanti il figlio Horus. Alcune delle immagini egiziane che raffigurano la dea con il figlio al seno o in grembo sono quasi identiche alle immagini e statuette successive della Vergine Maria con il bambino. La cosa forse è meno sorprendente di quanto potrebbe sembrare, se si considera che i misteri isiaci sono stati una preparazione all’avvento di Gesù e dei nuovi misteri della cristianità.

Poiché Iside veniva associata al Nilo, l’acqua costituì sempre un elemento importante nel suo culto; a Pompei, nel tempio a lei dedicato, protetto per molti secoli dalla lava del Vesuvio che lo aveva ricoperto, si riconosce ancora una cisterna che veniva riempita regolarmente con le acque del Nilo. E le feste isiache più importanti in Grecia erano le Ploiaphesia, che celebravano l’inizio della navigazione, mentre a Roma si celebrava l’Isidis Navigium, festa durante la quale una nave riccamente equipaggiata e decorata veniva sospinta al largo in offerta alla dea.

D’altra parte il pavimento della chiesa, di cui la Vergine era protettrice, non si chiamava forse navata, termine che si ricollega alla navigazione? E dunque la Vergine del mondo precristiano era imparentata con l’acqua, esattamente come la Vergine dei cristiani.

Proseguendo nell’affascinante racconto della sua iniziazione, Lucio narra come, dopo essersi spogliato della sua forma oscura di asino, egli venisse introdotto ai tre gradi dei misteri isiaci, conquistando l’alto rango di sacerdote nel collegio esoterico dei pastofori.

Lucio afferma di essere diventato un adepto di Iside alla vigilia delle Ploiaphesia e descrive dettagliatamente lo svolgimento di queste feste, rivelando anche alcuni particolari dei misteri proibiti.

Ecco come racconta il momento dell’iniziazione nel tempio:

«Arrivai ai confini della morte, posai il piede sulla soglia di Proserpina».

La sua «seconda morte» è uno stadio canonico nel processo iniziatico.

Con linguaggio criptico, Lucio dice: Per omnia vectus elementa remeavi, «Poi tornai indietro, passando attraverso tutti gli elementi», esprimendo in tal modo l’idea che sia uscito dal corpo per essere quindi restituito alla pesantezza dei quattro elementi che lo compongono.

Al culmine estatico della sua esperienza, a Lucio è concesso di vedere quello che la letteratura esoterica chiama il Sole di mezzanotte. Rammenta, non senza tremore:

«A mezzanotte vidi risplendere il chiaro fulgore del sole; mi avvicinai agli dei degli inferi e a quelli del cielo, e li adorai da vicino».

Frase che ci ricorda una bella canzone dei primi anni Sessanta, Midnight Sun. La canzone aveva un so che di misterico: la cantava June Christy e faceva parte di un suo album, Something Cool, inciso intorno al 1959. Questa cantante aveva in repertorio diversi pezzi con chiare allusioni arcane, e l’esecuzione faceva pensare che ne conoscesse il significato riposto.

Questo viaggio nel mondo spirituale sfiora il livello più alto dell’iniziazione, eppure Lucio confessa che in quell’occasione gli dei gli concessero altre grandi visioni e rivelazioni di cui non può parlare ai profani.

Aveva forse sollevato il velo di Iside?

Quel velo ha tanto l’aria di essere un’invenzione letteraria: definire Iside velata era un modo simbolico per rappresentare quella dea dei misteri, custode di segreti che non tutti potevano vedere e che nessuno doveva divulgare. Soltanto i suoi adepti potevano sollevare il velo. Ma anche il velo tanto famoso sembra sia nato da uno stravolgimento della parola greca peplos, che era incisa sulla statua della dea e significava «veste». Il monito iniziale aveva connotazioni anche sessuali, com’era prevedibile trattandosi di una dea bellissima: nessun uomo poteva guardare impunemente la sua nudità. E il Sole di mezzanotte non potrebbe essere un simbolo di Cristo – il nuovo dio del Sole Horus – allora invisibile a tutti tranne che agli occhi degli iniziati?

Mark Hedsel, L’iniziato

1 dicembre 2014

Sangue sulla Luna


Austin Osman Spare era stato molto povero e forse per questo il pastello aveva una cornice tanto modesta. Fui felice quando, togliendo quella cornice così poco adatta, scoprii in un angolo il monogramma AOS, con cui il pittore si firmava. Mentre avvicinavo alla luce il pastello per osservare meglio la sigla non ebbi bisogno di sfogliare il vecchio catalogo della mostra per rintracciare il titolo di quell'opera. Mi era rimasto impresso nell'anima per tutti quegli anni: era Sangue sulla Luna.

Naturalmente, quando avevo letto quel titolo alla Archer Gallery, mi ero domandato che cosa mai significasse. Ma ero troppo giovane per avere il coraggio di chiederlo al pittore. In seguito, parlando con gli amici e anche con la signora che aveva acquistato il pastello, mi accorsi che nessuno sapeva il perché di quello strano titolo; io avevo letto diversi scritti di Spare ed ero certo che in esso ci dovesse essere un significato nascosto: sapevo che il pittore si interessava alla tradizione geroglifica, ma purtroppo quando cominciai a fare ricerche serie, Spare era scomparso portando con sé, così pensavo, ogni possibile risposta alla mia domanda.

Il significato di quel titolo finii per scoprirlo, ma questa è un'altra storia. Se accenno a questo enigma ora è soltanto per via di qualcosa che accadde al mio secondo incontro con Mark Hedsel.

Era passato più o meno un mese dalla visita alla Archer Gallery quando un giovedì pomeriggio entrai nella libreria Atlantis di Museum Street. Cercavo una copia di seconda mano di un classico dell'esoterismo orientale, Il segreto del fiore d'oro, nella traduzione di Wilhelm.

Per quanto ricordo, a quell'epoca a Londra c'erano soltanto due librerie esoteriche: la famosa Watkins di Cecil Court, diretta da quel colto esoterista che era John Watkins, e l'Atlantis, che apparteneva a Michael Juste, un arcanista di grande competenza.

Il mio primo incontro con Michael Juste, avvenuto due anni prima, era stato molto strano, quasi inquietante. Nel 1953 io avevo appena quindici anni. Il mondo dell'arcano mi incuriosiva già, ma ero molto ignorante al proposito. Avevo da poco deciso che, invece di andare all'università, avrei studiato pittura all'accademia di belle arti. Il giorno in cui varcai per la prima volta la porta della libreria Atlantis, avevo un album da disegno in una mano e una cartelletta nell'altra.

Ripensando a quel momento così importante per la mia vita, mi pare di ricordare che l'Atlantis fosse illuminata da due lampade a gas. Naturalmente c'era già l'elettricità, ma Michael si ostinava a usare due vecchie lampade sistemate sopra quello che un tempo era il camino. Posso ancora sentire il sibilo dei beccucci nel negozio altrimenti silenzioso, e rammento quanto era buio e tetro, di sicuro non un posto dove starsene a sfogliare comodamente i libri. Ebbi la sensazione che l'Atlantis non fosse una semplice libreria, che la sua funzione fosse un'altra.

Una volta dentro il negozio, quando la vista si fu abituata alla semioscurità, mi accorsi di due facce che mi scrutavano, entrambe con penetranti occhi infossati e incorniciate da riccioli fluenti. In quel buio erano così simili che mi ci volle qualche istante per capire che una era quella di un busto di bronzo a grandezza naturale, la copia inerte della persona viva che, sorridendo della mia confusione, si presentò come Michael Juste.

«Ci siamo già incontrati» disse con naturalezza, fissandomi in attesa della conferma.

«Non credo» mormorai. Ero arrivato da poco a Londra e conoscevo al massimo cinque o sei persone in tutta la città.

«Sì. È stato in Egitto. Tu eri uno scriba anche in quella vita.»

Non voleva stupirmi. Parlava con un tono del tutto normale e nella sua voce c’era una sicurezza sconcertante. Erano parole che avrebbero dovuto lasciarmi di sasso, e invece avevano un qualcosa di così rassicurante e fermo che soltanto in seguito mi resi conto della stranezza di quella conversazione.

«Ma in questa vita sarò un pittore» dissi, mostrandogli l’album. Quella mattina mi ero appollaiato davanti alla finestra dell’antica casa di Christopher Wren sulla riva sud del Tamigi, a buttar giù uno schizzo della straordinaria vista di St Paul, che si innalzava oltre i magazzini distrutti dalle bombe. Wren aveva comprato quella casa per seguire i lavori di costruzione della cattedrale, che risorgeva dalle ceneri dopo il Grande Incendio. Ora, da quella stessa finestra si vedeva la sua cattedrale risorgere da altre ceneri. Aprii la pagina in cui c’era il disegno e glielo mostrai.

Michael Juste lo prese e lo guardò, annuendo. Ora nella sua voce c’era un filo di impazienza: «Eri uno scriba allora. Sarai scriba di nuovo. In questa vita» disse, restituendomi l’album da disegno con un gesto piuttosto brusco.

Erano passati due anni e mi trovavo di nuovo nella libreria Atlantis, quando il campanello sopra la porta tintinnò. Entrò Mark Hedsel. Indossava la sciarpa e il basco come l’altra volta e sembrava uno studente parigino della rive gauche, ma più elegante. A tracolla aveva una borsa, che posò sul banco, vicino alla mia cartelletta. Compì quel gesto in modo curioso, prendendo la cinghia fra il pollice e l’indice e rivolgendo verso di noi il palmo della mano. Pensai che fosse una forma particolare di saluto per Michael: avevo sentito parlare di segnali del genere tra confratelli, ma era la prima volta che mi capitava di vederne uno.

Michael si rivolse a me, chiedendomi: «Come ti chiami?».

«David Ovason.»

«David, ti presento Mark Hedsel. Scoprirai che avete molte cose in comune.» Ci fissò entrambi, prima l’uno e poi l’altro, come per indicare che le sue parole avevano un significato particolare.

«L’ho vista alla Archer Gallery» mi azzardai a dire, mentre Mark mi porgeva la mano.

«Alla mostra di Austin?»

Annuii e gli strinsi la mano. «Parlava con Austin Spare.»

«L’ho incontrato soltanto due o tre volte» disse Mark, rivolto a Michael. «Prima che lasciassimo la galleria, aveva venduto otto quadri.»

«Sono contento» rispose ridendo Michael. «Così per un po’ non andrà nei pub.»

«Gli piace bere?» chiesi piuttosto sorpreso.

«No» replicò Mark. «Ci va per vendere le sue tele. È un genio che fa l’ambulante. A volte espone i suoi lavori nei pub. E se qualcuno gli chiede un ritratto, glielo butta giù per quattro soldi.» Si rivolse di nuovo a Michael: «È un tipico genio inglese; un ego solitario, eccentrico e povero. Un reietto».

«Come Blake» aggiunse Michael con un sorriso.

«Per più di un verso» assentì Mark. (Allora non capii a che cosa alludessero con quelle parole. In seguito seppi che Spare era convinto di essere stato Blake in una vita precedente.)

Seguì un silenzio durante il quale Mark mi scrutò attentamente. Aveva un profilo dalle linee nette, un volto giovane e armonioso, ma nel suo sguardo c’era un’espressione matura che faceva pensare avesse superato la trentina da un pezzo: i suoi occhi erano gentili, penetranti e saggi, il suo tratto più peculiare. Dava l’impressione di osservare e valutare, ma senza la minima diffidenza.

«Vuoi venire a prendere un caffè, David?» mi chiese Mark. Continuò a scrutarmi, anche mentre mi rivolgeva questa domanda così innocente, come se a interessarlo non fosse tanto la domanda, e neppure la risposta, quanto io. Mi ero già fatto l’idea che Mark appartenesse a qualche scuola segreta e il cuore mi batteva all’impazzata.

Annuii e allungai la mano per prendere il mio album da disegno, ma nel farlo questo si spalancò e la pesante copertina rovesciò un bicchiere lì vicino che cadde a terra frantumandosi. Confuso, mi chinai a raccogliere i pezzi e li infilai in quel che restava del bicchiere.

«Mi dispiace molto.»

«Non preoccuparti» disse Michael, troncando sul nascere le mie scuse. «Sarà meglio che tu lo metta sotto l’acqua...»

Lì per lì non capii, ma poi, seguendo il suo sguardo, mi accorsi che perdevo sangue da un dito.

Posai di nuovo l’album. Michael andò sul retro del negozio e aprì una porticina che dava su una scala di pietra. Dietro sue istruzioni scesi per la prima volta nella cantina che stava sotto la libreria.

L’atmosfera era misteriosa, ma non sgradevole. Mi sentivo protetto. In seguito, quando cominciai a imparare qualcosa di più sul mondo segreto della magia, ripensai a quella cantina e capii perché mi era sembrata così strana: con qualche rituale magico Michael doveva averla sintonizzata in modo tale che potessero entrarvi soltanto le persone sinceramente interessate all’arcano. Il locale era zeppo di libri occulti e rari, di quadri e cianfrusaglie arcane di ogni genere: oggetti magici, pettorali rituali, bastoni e altre curiosità. La cosa che più mi sorprese fu scorgere, in mezzo a tutto quel disordine, tanti dipinti, pastelli e disegni di Spare. Stipati sugli scaffali e ammonticchiati sul pavimento nella confusione più totale c’erano moltissimi libri e, benché non avessi tempo di sfogliarli, notai nel mucchio rilegature in pergamena splendidamente lavorate con nomi di occultisti famosi, tra cui Agrippa, Dee, Gichtel e Van Helmont.

Mi lavai la ferita, estraendone una minuscola scheggia di vetro, fasciai come meglio potei il dito con un po’ di carta igienica per fermare il sangue e poi, risalendo la scala, ritornai nel negozio.

Quando entrai i due uomini mi guardarono stupiti come fossi un intruso. Sembrava che ridessero fra loro di qualcosa.

«Guarda» mi disse Mark, indicando l’album ancora aperto sul banco. Sul foglio c’era uno schizzo ad acquarello che avevo fatto qualche giorno prima: raffigurava una Diana cornuta, che avevo liberamente ripreso da un’illustrazione di Boris Artzybasheff che amavo molto.

«Guarda» ripeté Mark.

Il sangue, un rivoletto che era colato dal dito ferito, attraversava da una parte all’altra il disegno. Era come un lampo rosso che si stava coagulando e fendeva l’azzurro profondo del cielo notturno e il ventre nudo della celeste Diana.

«Vedi? Sangue sulla Luna» disse Michael Juste.

Rimasi turbato. Non avevo rivelato a nessuno il mio interesse per il quadro di Spare. Volevano forse dimostrarmi di saper leggere nei miei pensieri, nella mia stessa anima? Quei due uomini possedevano la visione superiore di cui parlavano i libri arcani sui segreti dell’iniziazione? A un tratto mi sentii piccolo piccolo davanti a loro.

Allora ero giovane e fu soltanto parecchio tempo dopo che capii come Mark e Michael non pensassero affatto al quadro di Spare. La loro attenzione era stata attirata dall’immagine di Diana nel mio album da disegno: in quel disegno insanguinato avevano colto un significato alchemico.

Nel rivolo di sangue avevano entrambi percepito lo stesso significato nascosto: l’incontro del Sole con la Luna. In alchimia l’unione di Sole e Luna – espressa con simboli diversi, ma interrelati, quali l’accoppiamento del Re e della Regina, o la figura dell’androgino, prediletta dagli incisori del XVI secolo – costituisce una fase importante nella produzione della pietra filosofale, la cui scoperta è il fine degli alchimisti. Nel sangue sulla Luna Michael e Mark videro quel giorno il segno che io mi sarei occupato della coniunctio alchemica, ossia che in me sarebbe sorto l’interesse per l’iniziazione. Da occultisti esperti sapevano che ogni atto – anche quello apparentemente più casuale – ha un suo significato profondo.

Mark Hedsel, L'iniziato