La Via del Matto è la via del viaggiatore solitario in cammino verso l’iniziazione. Questo viaggiatore può anche studiare sotto la guida di uno o più maestri, ma cercherà in ogni maniera di conservare la propria identità e raramente si impegnerà nel giuramento di mantenere il silenzio se questo lo vincolerà a una scuola specifica o a un insegnamento particolare. Dire che il Matto errante è sulla Via (way o path, in inglese) equivale a dire che percorre la strada dell’esperienza, la quale in greco antico era chiamata pathein.[1]
Quella del Matto è la via dello sviluppo dell’ego.[2] Nel linguaggio esoterico l’ego è l’io; e questo io è una gocciolina della Mente universale di Dio. Il termine sanscrito manas – che significa sia «individuo immortale» sia «mente superiore» – è l’equivalente del vero ego. È quella goccia di divinità che ha cercato l’esperienza attraverso il coinvolgimento nella materia. Questa minuscola particella viene calata nella materia affinché possa percepire se stessa, ossia acquisire esperienza nel regno della creazione divina.
Per questo suo legame diretto con la divinità, l’ego pienamente evoluto è indistruttibile. Tuttavia, per effetto del suo incarnarsi e quindi ottenebrarsi attraverso il coinvolgimento nella materia, l’ego umano non conserva l’onniscienza della sorgente da cui proviene. Per questa ragione, perché la sua conoscenza cosmica si trova a essere limitata dalla maschera che incappuccia l’io, solo raramente l’ego sviluppa tutto il suo potenziale spirituale. Di incarnazione in incarnazione esso dimora in quelle che in confronto alla luce dei piani spirituali non possono che essere chiamate tenebre. Ma se impegnerà tutte le sue energie, l’ego potrà riconquistare le potenzialità originarie e togliersi la maschera che lo acceca.
Finché è sulla Terra, incatenato a un corpo fisico, l’ego deve aprirsi la strada nella materia attraverso tre organi, o «corpi», che gli esoteristi chiamano l’astrale, l’eterico e il fisico, di cui parleremo più avanti.[3] Questi tre organi sono controllati dall’ego, raffigurato nella letteratura ermetica come un grande uccello – un pellicano, una fenice oppure un cigno – che discende dal mondo spirituale nel regno della materia per insediarsi nella carne. È un uccello piuttosto curioso, perché, anziché le solite due ali, ne ha tre.
L’ego non è completamente solo quando dal mondo superiore viene mandato alla deriva: lo accompagnano tre corpi spirituali, invisibili all’occhio fisico. Come la dea Venere, l’ego è circondato da tre Grazie, un trio che gli intreccia intorno una perenne danza: sono le compagne di questo ego appena nato, compagne che la letteratura esoterica moderna chiama atman, buddhi e manas.
L’ego è trascinato verso la Terra dai tre corpi inferiori, che come cuscinetti attutiscono il suo impatto con il mondo materiale e nello stesso tempo lo legano a esso.
Questa dell’ego, nutrito da forze spirituali e tuttavia sprofondato nella materia, non è un’immagine di facile comprensione. Forse si capirà meglio osservando la tabella che segue.
In questo schema l’ego viene raffigurato come una superficie riflettente – una sorta di specchio del potenziale – cosicché l’astrale, che sta al di sotto, si riflette nel manas che sta al di sopra: il fisico si riverbera nell’atman, il più elevato di tutti. In questa immagine dello specchio è contenuto il disegno della futura evoluzione dell’umanità: tanto per fare un esempio, sarà attraverso lo sviluppo del potenziale spirituale dell’atman – o atma – che il corpo fisico verrà redento.[7]
Dei sette corpi, quello fisico è l’unico visibile. Mentre i tre corpi inferiori in qualche modo si compenetrano, l’ego (quando è attivo nello spazio e nel tempo) è invece situato più intorno alla testa. I tre corpi superiori, sui quali l’umanità concentrerà i propri sforzi nelle epoche future, sono ora in stato embrionale: in un certo senso sono situati al di sopra della testa, anche se è fuorviante collocarli nello spazio e nel tempo.
Tutti ci illudiamo di sapere che cosa sia il corpo fisico; tutti, tranne l’iniziato, per il quale esso costituisce il grande mistero.[8] Sicuramente però l’eterico, l’astrale e l’ego rappresentano una difficoltà per chi non ha familiarità con l’ermetismo moderno. Cercherò pertanto di presentare questi tre corpi analizzandoli alla luce della Via del Matto.
L’immagine arcana più antica di questo Matto errante è quella raffigurata nelle prime carte dei tarocchi, apparse in Europa nel XV secolo. Benché inizialmente fossero usati per il gioco, i tarocchi vennero ben presto impiegati nella divinazione.
[9] I maggiori esperti di esoterismo sono arrivati alla conclusione che i tarocchi racchiudono un complesso sistema di idee ermetiche e che furono diffusi da qualche sconosciuta confraternita arcana.
La carta del Matto è ricca di simboli che rinviano alla via che da lui prende il nome. Vi si vede un uomo barbuto che indossa il tradizionale berretto a sonagli del buffone. Sulla spalla destra ha un bastone alla cui estremità è appesa una bisaccia. Il suo cammino è ostacolato da un animale (alcune volte un gatto, altre un cane) che gli azzanna i polpacci o gli strappa la veste: un simbolismo curioso, che apre uno squarcio sulla tradizione iniziatica ermetica, praticata nei templi dell’antico Egitto.
A simboleggiare l’ego è la faccia, coronata dal copricapo con tre corni e con i campanelli, tradizionalmente indossato dal Matto. I tre «corni» non alludono, come alcuni hanno suggerito, all’associazione fra il Matto e la Luna, ma mostrano invece che l’ego umano è immerso nel fulgore dei tre corpi spirituali superiori, benché non ancora sviluppati: l’atman, il buddhi e il manas.[10]
Alla spiritualità allude anche lo sguardo del Matto, che è rivolto verso l’alto; e se la barba attira il suo volto verso il regno inferiore, animale, dell’astrale, gli occhi (che sono lo specchio dell’anima e in cui è riposta la pupilla che ricerca la conoscenza) puntano al cielo. Le volute che dalla barba salgono fino al copricapo, il quale termina in una sorta di ricciolo, vanno in senso contrario. Mentre la barba spinge il Matto verso l’animalità irsuta, il ricciolo sul berretto lo spinge verso i cieli: è la dualità archetipica che scorre sotterranea in quasi tutto il pensiero arcano. Si potrebbe addirittura immaginare che il ricciolo con cui termina la voluta del berretto sia un segno del terzo occhio segreto, quello che scruta in alto, nei regni spirituali.[11]
La parte irredenta dell’uomo – la sua ombra scura, come viene talora chiamata – è contenuta sicuramente nel fardello che il Matto porta sulla schiena. Lì dentro, diceva spesso Mark Hedsel, c’è il karma che il Matto ha accumulato, ci sono i suoi debiti e i suoi crediti spirituali.[12] Lì dentro c’è qualcosa con cui chi è sulla Via deve prima o poi misurarsi: la materia scura accumulata di vita in vita, che contrasta con la purezza della prima materia, o materia spirituale incorrotta, la quale appartiene all’anima per diritto di nascita.
L’arte medievale ricorreva spesso agli animali come simboli dell’astrale: il cane (o il gatto) che insegue e aggredisce il Matto non fa eccezione, è il suo elemento astrale, non addomesticato. E poiché il Matto non l’ha addomesticato, ovvero integrato nella sua anima, questo ha una sua esistenza indipendente, è una sorta di essere-ombra, simile alla creatura astrale che il poeta Dante incontra quando intraprende il suo cammino verso l’iniziazione. L’astrale, essendo la sorgente delle emozioni, è anche la sorgente del movimento: una delle cose più difficili della vita è controllare le emozioni, che sono la manifestazione interiore dell’astrale, e i movimenti che ne sono la manifestazione esteriore. È questa l’e-mozione, o moto verso l’esterno, che l’azione aggressiva dell’animale esprime.
Uno dei primi consigli che riceve il neofita non appena mette piede sulla Via è di imparare a controllare l’impulso di dare espressione immediata alle sue emozioni, e dunque di imparare a controllare le emozioni stesse. Quando si intraprende un percorso esoterico, le emozioni dovrebbero diventare strumenti per esperire il mondo, e non invece qualcosa che irretisce, con il suo potere di illudere e la sua capacità di tracimare nell’anima. Con tenacia il neofita impara poco a poco a imbrigliare la bestia che ha dentro di sé. La Tavola 1 indica che uno degli scopi del controllo è trasformare l’astrale a tal punto da farlo diventare manas.
I due bastoni che il Matto porta con sé sono l’emblema del suo corpo eterico, un simbolismo ribadito dalla loro origine: i bastoni provengono dalle piante e nella tradizione arcana la vita vegetativa è alimentata dalle energie eteriche. È questa la ragione per cui nel pensiero ermetico medievale l’eterico veniva chiamato anche ens vegetabilis, o essenza vivificante.[13]
Nel caso in cui questa interpretazione della carta del Matto dovesse sembrare capziosa, può servire osservare un’incisione seicentesca di argomento alchemico in cui sono rappresentati l’astrale e l’eterico secondo il simbolismo universalmente adottato al tempo. L’astrale, o ens animalis, è simboleggiato da un bambino, collegato con il cosmo da una sorta di cordone ombelicale: questo minuscolo essere umano racchiude in sé il corpo astrale dei sentimenti, la vita eterica e il corpo fisico.
L’eterico, o ens vegetabilis, ha per simbolo una pianticella fiorita: essa non possiede il corpo astrale dei sentimenti, ma possiede quello eterico, che la conserva in vita.
Il corpo fisico, o ens mineralis, è rappresentato da una montagna, o da una grande roccia. Ma non si tratta di semplice materia inerte, come si arguisce dai sigilli dei sette pianeti che vi sono apposti: l’autore dell’incisione comunica così che tutte le possibilità spirituali esistono in potenza, sepolte dentro questa materia terrestre. In un contesto simile il numero sette indica di solito una connessione con i sette pianeti tradizionali.
L’immagine, tratta da un testo importante, opera dell’alchimista Becher, illustra con estrema chiarezza la natura dell’eterico. La forza vitale eterica contenuta nelle piante spinge i quattro elementi della materia ad assumere una forma, ma le piante, non avendo contatti significativi con il piano astrale, non vengono coinvolte nella vita emotiva che dell’astrale è il punto fondamentale.
La parola latina che indica il bastone è virga, il cui suono ricorda troppo da vicino «virgo», e quindi Vergine, per non evocare un altro suo ruolo, quello di fecondatore delle idee. Mark Hedsel ha insistito molto sulla connessione che il bastone può avere con la divinità egizia Maat,[14] a cui, a loro volta, sembrano legarsi il francese mat, e l’italiano matto.
Il corpo fisico è, naturalmente, il corpo del Matto stesso, chiamato talora anche asino o somaro, forse per suggerire il fatto che è controllato da un cavaliere: naturalmente, l’ego. La semplicità del simbolismo non deve trarre in inganno: il corpo fisico è ritenuto uno dei grandi misteri, la cui vera natura spirituale è stata scarsamente esplorata, tanto che la tradizione ermetica lo definisce a volte «un concentrato di saggezza».[15] Nelle carte dei tarocchi il corpo è separato dalla testa – la parte spirituale pensante – con l’artificio simbolico del bastone, che posato di traverso sulle spalle, segna un confine tra il capo e il tronco. Il corpo, nel simbolismo ermetico, è coperto: le vesti sono il simbolo degli elementi fisici che celano e insieme rivelano la forma interiore. Che sia così lo si capisce dallo strappo nel tessuto sulla gamba destra del Matto, da cui spunta la pelle nuda, a ricordare che dietro il travestimento si cela un essere umano.[16] Uno strappo analogo presentano le vesti del Figliuol prodigo di Bosch. In tutte queste immagini il corpo fisico è nascosto dagli indumenti, così come, durante la Festa dei pazzi, chiunque, compresi i sacerdoti, nascondeva il volto dietro una maschera.
Uno degli scopi della meditazione è distogliere l’ego dai piani inferiori, in cui regna il desiderio, affinché, non più trattenuto dal potere ipnotico del regno materiale, esso si involi verso l’alto. Così libero, l’ego scivola leggero come sulle acque immobili di un lago. Su questa superficie quieta l’ego può riflettere i cieli che stanno sopra e ricevere tutto il fulgore del divino di cui è parte. Nella Via del Matto questa forma di meditazione costituisce il preludio alla capacità di scrutare dentro i segreti della natura.
Una delle cose che la Via del Matto insegna è che per chi vuole restare a contatto con il divino il desiderio (kama) in sé e per sé non è desiderabile. Ma è altamente desiderabile – se non essenziale – desiderare di fare esperienza nel regno della materia. Gran parte della filosofie orientali dimostrano un’eccessiva predisposizione a insegnare il distacco dal mondo – il ritorno allo spirito – come mezzo per purificarsi dal kama, ossia dal coinvolgimento nel mondo. La religione cristiana chiama questa fuga la Via negativa. La Via del Matto è l’esatto opposto: si ispira infatti al principio che se abbiamo un corpo fisico (tanto se «cavalchiamo l’asino» quanto se «siamo asini») non è per liberarcene, ma perché esso serva ad arricchire la nostra esperienza e la nostra conoscenza.
Percorrere la Via del Matto è come compiere un equilibrismo. Pur non volendo in alcun modo perdere i contatti con il suo io superiore, il Matto vuole assaggiare la vita, e viene continuamente tirato da una parte e dall’altra. Spigolando conoscenza qua e là, egli non solo arricchisce l’ego, ma soddisfa anche il bisogno del divino (di cui l’ego è parte) di esplorare il piano materiale. Il Matto, però, non aspira a conoscere la superficie delle cose: mira sempre a penetrare al di là dell’illusione, a sondare la realtà nascosta dietro la sua insidiosa ragnatela. Egli sa che il piano materiale, da molti considerato la realtà ultima, è la più illusoria delle cose: è maya, un gioco di ombre.[17] Ma questa convinzione racchiude in sé un conflitto: chi segue la Via del Matto desidera esplorare il mondo materiale pur essendo pienamente consapevole che è un campo minato, disseminato di irrealtà.
L’ideale che il Matto insegue compare, appena velato, nelle opere di molti artisti e in una ricca letteratura sviluppatasi a partire dal XVI secolo. Uno dei temi più frequenti è quello dell’incertezza dell’ego e della sua riluttanza a calarsi interamente nel regno materiale, come richiede invece la Via del Matto.
In nessun’altra opera il dilemma dell’incertezza e dell’insicurezza che pervade i pensieri, i sentimenti e la volontà dell’ego è espresso con tanta chiarezza come nell’Amleto. Benché Shakespeare abbia esplorato con mirabile intuizione la natura del matto in diverse sue tragedie,[18] nessuna meglio di questa rispecchia il significato arcano dell’ego. L’ego del principe di Danimarca, ancora in formazione, non è abbastanza forte per liberarsi dal senso di morte che è la conseguenza inevitabile del coinvolgimento nella materia. Pochi eroi (ammesso che il principe Amleto possa essere definito tale) hanno percepito il potere di morte del pensiero umano con tanta forza da meditare su un cranio, soppesando i pro e i contro del suicidio. Pochi eroi hanno avuto, sul piano dei sentimenti, un rapporto così incerto con la propria amata da indurla alla follia e alla morte. Pochi eroi si sono immersi così a fondo nella materia da calarsi in una tomba aperta; e pochi eroi sono stati così confusi nel loro agire da uccidere con la spada un innocente nascosto dietro un arazzo, il simbolo shakespeariano del velo che nella letteratura arcana cela la dea Iside.[19] Shakespeare sembra voler ritrarre la disgregazione delle normali categorie umane sotto l’impatto che l’ego subisce quando entra troppo a fondo nella materia. Questa confusione fa sì che il principe di Danimarca possa essere considerato ora un genio ora un matto.
La tragedia è uno studio dello spirito umano sottoposto alle oscillazioni di un ego che non è ancora maturo e che sente di aver perso i contatti con il divino. In questo senso Amleto è poco più che un bambino. L’aveva ben capito Goethe, quando osservò che Amleto è il ritratto di una persona che è stata caricata di un peso superiore alle sue forze.[20]
Come molte opere esoteriche l’Amleto è stato un libro profetico circa lo sviluppo futuro dell’uomo. In termini esoterici, il periodo che diede l’avvio al Rinascimento in Italia e all’età elisabettiana in Inghilterra, fu contrassegnato da una costante, anche se a volte drammatica, crescita dell’ego. A creare le condizioni di questa crescita fu la scuola esoterica patrocinata dai Medici nella Firenze del XV-XVI secolo. In Inghilterra, più o meno nello stesso periodo, l’intensificarsi dell’ego fu così violento e provocò un tale senso di separatezza dal mondo spirituale, da indurre Enrico VIII ad affrancarsi dall’autorità papale. Il sovrano inglese, forse inconsapevolmente, istituì una religione fondata su un rapporto fra l’ego umano e un Dio che era diverso da quello della Chiesa cattolica.
Nella magia numerologica cui si ispirano i disegni dei tarocchi, al Matto viene in genere assegnato lo zero. Alcuni arcanisti associano questa carta anche alla prima lettera dell’alfabeto ebraico, l’aleph. Qualcuno potrebbe vedere in ciò una contraddizione, poiché nella numerologia ebraica l’aleph corrisponde di norma al numero uno, tant’è vero che certi legano la lettera alla prima carta dei tarocchi, il Bagatto.[21]
L’apparente conflitto fra lo zero e l’uno rispecchia in realtà la natura intima del Matto. L’uno, che se ne sta solo ed eretto davanti a tutti gli altri numeri, è un simbolo perfetto per l’ego: l’associazione fra il numero uno e il Matto era sicuramente intenzionale e riecheggiava la lettera «I» di io, l’ego. Soltanto chi possiede un ego può dire io a quell’ego. L’ego è sempre solo davanti all’oggetto della sua esperienza. È l’unico spettatore di quello spettacolo di marionette che si svolge davanti ai suoi occhi. Forse è proprio in questo conflitto, fra il cerchio dello zero e l’asta del numero uno, che va ricercata la spiegazione dei curiosi sigilli per la meditazione di cui Mark Hedsel mi fece dono poco prima di morire e in cui si combinano cerchi e linee rette.
Queste considerazioni sullo zero e sull’uno costituiscono il preludio al paradosso spirituale del Matto, al fatto cioè che il Matto, così come l’ego, è insieme zero e uno. Ciascuno dei due rappresenta qualcosa che sembra privo di fondamenta, una singola cosa separata dal tutto, e che tuttavia pare essere un’unità completa, un’individualità unica. Questo conflitto fra essere e non essere è uno dei temi sotterranei nel famoso soliloquio di Amleto, che comincia appunto con le parole «Essere o non essere...».[22]
Anche il bastone che il Matto porta con sé è un simbolo dell’io eretto, e dunque dell’ego. Il bastone sulla spalla destra è tirato verso il basso da un fardello rotondeggiante in cui si può vedere un’altra forma dello zero, un cerchio. Le due cose – bastone e fardello – rappresentano dunque l’alternarsi di essere e nulla che caratterizza la percezione umana dell’ego. «Ora son questo, ora son quello»: così si sentono tutti coloro che non hanno ancora sviluppato il loro ego al punto di diventare padroni di se stessi. Non per nulla il grande occultista del XVI secolo, Paracelso, consapevole di vivere all’inizio di un periodo caratterizzato dallo sviluppo dell’ego, scelse per le sue opere un motto latino, il quale, tradotto, suona più o meno così: «Non sia d’altri chi può essere di se stesso». È l’invocazione tutelare dell’ego nascente.[23]
Note
[1] Nel loro linguaggio gli antichi misteri distinguevano fra i metodi e i contenuti dell’apprendimento comune e i metodi e i contenuti di quello iniziatico. Il primo tipo, l’apprendimento «normale», che avveniva attraverso l’intelletto, era espresso dal verbo mathein, da cui deriva la parola «matematica». A questo, i misteri contrapponevano l’apprendimento attraverso le esperienze interiori dell’anima, che veniva espresso con il verbopathein. Questo verbo viene in genere reso in italiano con «soffrire», ma in realtà il suo significato è più ampio: designa «un sapere che si acquisisce a contatto diretto con il mondo materiale». L’ego del Matto segue questa seconda via, ed è in parte per questo che i profani guardano con sospetto le sue stranezze. Probabilmente si chiedono: chi può voler imparare tramite l’esperienza, quando quasi tutti si accontentano di imparare tramite l’intelletto? I non iniziati si accorgono raramente che la conoscenza «normale» costituisce un labirinto senza uscite e non soddisfa l’anima che cresce.
[2] Essendo la parola ego così importante per la Via del Matto, sarà bene esaminare il significato dal punto di vista iniziatico. Ego viene dal latino ed è il pronome di prima persona singolare, significa cioè «io». Nella Via del Matto con ego si indica la parte che è sacra per quell’io. La sola persona che possa, correttamente, rivolgersi a se stessa dicendo «io» è l’ego, il quale soltanto può assumersi la responsabilità delle sue decisioni e azioni. Come nel corso di molte migliaia di anni si sono sviluppati gli altri corpi spirituali dell’uomo attraverso l’esperienza e l’iniziazione, così l’ego umano ha subito un’evoluzione particolare dalla seconda metà del XV secolo. Nell’esoterismo moderno l’ego viene di solito accomunato all’anima cosciente. Jung concepisce l’ego come una sorta di unità dinamica che, con più o meno successo, tiene legata l’individualità. Su un piano diverso l’ego è considerato quella parte dell’individuo che gli altri percepiscono come essenza in contatto con la realtà esterna. Entrambe le nozioni hanno una certa somiglianza con le verità insegnate nelle scuole esoteriche, senonché per l’esoterista l’ego è un corpo spirituale distinto, una specie di «superanima», come dice Emerson. Nel pensiero esoterico l’ego è l’utente della persona, ossia della maschera della personalità: ancora in gestazione in gran parte dell’umanità, può ancora avere una straordinaria crescita.
[3] Il termine astrale, ampiamente usato nella letteratura occulta, deriva dalla parola latina aster, che significa «stella». Dal punto di vista spaziale, il piano astrale è contiguo a quello materiale: su questo piano i pensieri e le emozioni hanno una realtà propria, sono entità. Il corpo astrale, invisibile a tutti tranne che ai veggenti, è il corpo delle emozioni, un tempo chiamato «corpo del desiderio». In quanto tale, questo corpo, che aspira a calarsi nella materia e impaniarsi nel mondo materiale, è uno strumento dell’ego. Le pietre e le piante non hanno un corpo astrale, come hanno invece gli animali, ed è per questo che nella tradizione esoterica gli animali ne diventano spesso il simbolo. Il cane o il gatto che inseguono il Matto nella relativa carta dei tarocchi rappresentano anche quella parte dell’astralità che il Matto non ha ancora domato.
[4] Chiamato ens astrale nell’alchimia medievale, e «corpo passionale» in alcuni sistemi inglesi, l’astrale era anche definito «corpo sidereo» perché dimora nel regno delle stelle. In sanscrito il suo nome è kama-rupa.
[5] Chiamato ens veneni, o anche ens vegetabilis nell’alchimia medievale, e «corpo della vita» in alcuni sistemi inglesi, l’eterico è indicato in sanscrito come linga-sharira.
[6] Chiamato corpo elementare nell’alchimia medievale, il corpo fisico era anche soprannominato l’«asino» o il «somaro».
[7] La letteratura misterica descrive talora il corpo risorto di Cristo con la parola greca Augoeideian, che significa «luce radiosa». Con identica parola si indicava la veste di Osiride, il dio egizio risorto dalla morte e dallo smembramento.
[8] Un giorno rivolgemmo a un medico in pensione, seguace della Via del Matto, alcune domande sullo spirito e gli chiedemmo quali manifestazioni avessero sul piano materiale talune questioni morali. Egli rispose in modo chiaro, conciso e soddisfacente. Poi l’interrogammo sul corpo fisico. A questo punto apparve agitato e replicò: «A essere sincero del corpo fisico non so niente: è “il grande mistero”».
[9] Il mazzo tradizionale dei tarocchi usati nella divinazione è composto da 78 carte, tra cui 22 figure, chiamate arcani maggiori o atout. Le immagini originali furono sicuramente disegnate da qualche scuola iniziatica, di cui si sono perdute le tracce, perché il simbolismo e le permutazioni iconografiche e grafiche ne fanno uno strumento idoneo alla meditazione. Dei 22 atout, soltanto il Matto è privo di un numero e di solito gli si assegna lo zero. Per un’ampia scelta di immagini del Matto, vedi R.S. Kaplan, The Encyclopedia of Tarot, 1986, il quale non esclude che i disegni mirassero a qualcosa di più «mistico» del gioco delle carte. Che i tarocchi racchiudano in sé elementi di tradizioni arcane è ormai accertato da tempo: le seicentesche Minchiate Italiane sono, per esempio, in toto arcane. Il primo studioso a stabilire apertamente un nesso fra i 22 arcani maggiori dei tarocchi e i 22 sentieri dell’albero sefirotico ebraico pare sia stato E. Poirel in Les 22 Arcanes du Tarot Kabbalistique, 1889. Non tutte le versioni dei tarocchi successive al 1889 assegnano l’aleph al Matto: in un mazzo disegnato a mano e riprodotto da Kaplan, a Le Fou, che però resta il numero zero, viene fatta corrispondere la lettera ebraica shin, mentre l’aleph è attribuito al Bagatto. Il disegno della carta è molto fantasioso: vi si vede un coccodrillo in agguato dell’incauto viaggiatore. P.D. Ouspensky in A New Model of the Universe, 1931, esamina la carta del Matto come simbolo esoterico, rintracciandovi «un misto di cabala, alchimia, magia e astrologia». Tuttavia la sua tesi secondo cui i disegni risalirebbero al XIV secolo è discutibile: la descrizione della carta del Matto sembra infatti riferirsi a una tarda versione ottocentesca, dal momento che vi è presente il coccodrillo. Valentin Tomberg nelle sue Meditations on the Tarot, pubblicate anonime da Element Classics Edition nel 1993, cambia la posizione del Matto, cui assegna il numero 21 e propone altre deviazioni dalla norma che suggeriscono una comprensione inadeguata del sapere ermetico. Tomberg si basa troppo su esoteristi poco affidabili come Eliphas Levi.
[10] Questo genere di associazione, assai frequente nella letteratura popolare, costituisce un buon esempio di come funziona uno «schermo occulto». La verità che è celata dietro lo schermo è un’altra: mentre il Matto è certamente connesso con la Luna, il suo destino è legato alla triade spirituale composta di atman, buddhi emanas.
[11] Il terzo occhio permette di vedere dentro il mondo spirituale, ma nella maggior parte delle persone non è ancora sviluppato.
[12] Il karma è «la legge delle conseguenze», ossia il peso delle azioni compiute nella presente incarnazione e in quelle precedenti. In un certo senso è come una bisaccia che contiene le cattive azioni non ancora espiate: ci sono motivi validi per ritenere che il fagotto che il Matto dei tarocchi porta appeso al suo bastone sia simbolo del karma da lui accumulato. Nelle carte più antiche il bastone del Matto era dipinto di giallo, un colore che lo connetteva decisamente con la tradizione esoterica, in cui la piuma di Maat era gialla. Nelle definizioni più sofisticate il karma viene visto come l’elemento determinante della nascita, dell’esperienza e del destino di una vita. Nel tempo concessole di vivere l’entità incarnata espia (di solito inconsciamente) le conseguenze karmiche che trascina con sé dalle sue precedenti incarnazioni. Il karma, che costituisce un impulso molto forte nella vita dell’individuo, potrebbe essere ritenuto in contrasto con il libero arbitrio; in realtà quest’ultimo entra in gioco prima della nascita, quando l’individuo sceglie di tornare sul piano materiale, perché soltanto così potrà emendare le azioni precedenti e cancellare i suoi debiti. Il karma è, in questo senso, la forza che tiene l’umanità vincolata alla ruota della rinascita. I non iniziati recano inscritti nel loro organismo spirituale tutti i ricordi delle azioni passate, delle cose che hanno fatto. E sottolineo questo verbo, perché la parola karma, che deriva dalla radice kri («fare»), proprio su questo insiste. Le cose che noi facciamo sul piano materiale – con il pensiero, con le parole e con gli atti – si ripercuotono sul futuro del mondo e sulle nostre vite future. L’impulso karmico è ciò che ci spinge a redimere tutte le nostre cattive azioni, spesso in una o più vite future, quando le condizioni si rivelano favorevoli a questa redenzione. L’impulso karmico tuttavia non riguarda soltanto il male: le buone azioni che abbiamo compiuto in passato daranno frutto, donandoci qualche inatteso beneficio.
[13] In latino l’aetherius era il «regno celeste», o «mondo superiore», ma l’aether poteva trovarsi anche nei corpi materiali degli esseri viventi.
[14] Il nome della dea egizia Maat significa «diritta» ed è associato con l’idea della «retta via», quella delle legge e dell’ordine. Maat è la dea degli inferi, dove insieme a Osiride giudica i morti. Su un piatto della bilancia pone una piuma, sull’altro l’anima del defunto: la piuma viene anch’essa chiamata Maat. E dunque Maat, così strettamente imparentata con il francese mat e l’italiano matto, è diritta come il bastone nella mano del Matto e richiama anche la bilancia; infatti il Matto tiene in equilibrio sulla spalla il bastone al quale è legato il fagotto che contiene i suoi peccati karmici: speriamo che sia leggero come una piuma, altrimenti giù negli inferi non supererà l’esame di Maat.
[15] Nella letteratura esoterica il corpo viene talora chiamato «il grande mistero». In un lontano futuro questo corpo sarà redento e diventerà spirituale: si trasformerà in un corpo di «luce radiosa», nell’Augoeideian della terminologia ermetica. La teosofia sostiene che la metamorfosi avverrà quando il corpo fisico si sarà trasformato in atman. Il corpo fisico redento, che ha raggiunto una perfezione radiosa, ricorre spesso nella tradizione e nelle immagini di Resurrezione cristiane. L’imitazione di Cristo, negli stadi più alti, è naturalmente limitata a pochissimi iniziati estremamente evoluti.
[16] Lo strappo nella veste lascia intravedere la pelle: simbolicamente esso allude al fatto che il Matto, per poter compiere il suo viaggio, deve essere disposto a spogliarsi di ciò che lo ricopre, vale a dire, della persona o maschera che nasconde lo spirito. La personalità deve essere bruciata nell’aestum, nel fuoco. Il matto dei tarocchi porta le scarpe, mentre il mendicante nell’immagine francese dell’Apocalisse è scalzo. I piedi nudi sono il segno che il mendicante e l’uomo seduto che egli importuna non sono sul piano materiale, sono due figure astrali. Il Matto, invece, cammina sulla dura terra.
[17] Maya è una parola sanscrita, di solito tradotta come «illusione». In realtà maya indica tutte le manifestazioni del mondo materiale, esprime cioè l’idea che l’intera creazione è un’illusione, una sorta di proiezione, di ombra di un regno più alto. Alcuni linguisti ritengono che il significato della parola sia connesso con il gioco orientale delle ombre.
[18] Parlo di Shakespeare come se fosse un singolo autore, ma in realtà Mark Hedsel era convinto che egli fosse poco più che un nome dietro il quale si nascondeva un mito. Identificare in questo o in quello l’autore, o gli autori, dei drammi shakespeariani è azzardato; ma è abbastanza sicuro che la maggior parte delle opere cosiddette «shakespeariane» fu scritta da Francesco Bacone. In questo contesto, comunque, non è il caso di addentrarsi nella questione. Davanti alla facciata occidentale della casa di Shakespeare a Stratford-upon-Avon è stata posta, nel 1994, una statua di bronzo del drammaturgo a grandezza naturale, scolpita da James Butler. Il volto, pieno di intensa letizia, esprime l’essenza del Matto, ma sono soprattutto i gesti a penetrarne il simbolismo segreto: il cappello a tre punte che egli tiene sollevato in punta di bastone si rispecchia in quello analogo che la figura ha sul capo. Insieme, i due copricapo indicano che l’ego del Matto (così ben rappresentato nel buco, o zero, del copricapo) è situato fra i tre «corpi» superiori e i tre «corpi» inferiori, come indicato nella Tavola 1.
[19] Nel linguaggio esoterico il «velo» indica spesso lo schermo che rende invisibile il mondo spirituale agli occhi di chi non gode della visione superiore. In un certo senso il velo è la natura stessa. «Non sollevate il velo dipinto, che i vivi chiamano Vita» cantò in un sonetto Shelley. Ma più famoso ancora del velo del poeta inglese è naturalmente il velo di Iside, che soltanto gli iniziati possono alzare. In alcune immagini la dea indossa un velo nero sopra una veste tempestata di stelle.
[20] Amleto, scrive Goethe, è «un’anima assolutamente incapace di affrontare qualsiasi situazione o di esserne soddisfatto; un’anima alla quale è stato imposto un compito cui non può adempiere».
[21] Riteniamo si tratti di un errore, dovuto probabilmente al fatto che la seconda carta dei Tarocchi, il Bagatto, tiene le braccia in una posizione che richiama la forma dell’aleph: attraverso le sue azioni esteriori il Bagatto rende manifesto l’aleph di «uno». Ben diverso è l’intento del Matto, che concentra la propria attenzione sulla via, cioè sulla strada che gli sta davanti. Quasi tutti i cambiamenti apportati all’ordine, alla numerazione e al disegno dei tarocchi dai circoli di fine XIX secolo che si proclamavano ermetici hanno offuscato la saggezza contenuta nelle carte più antiche.
[22] Amleto, III, 1. È significativo che il soliloquio del principe di Danimarca sia preceduto e seguito dalla parola «Signore» appellativo con cui Polonio si rivolge al re, e Ofelia ad Amleto («Mio Buon Signore»): nell’esoterismo l’ego è il Signore dei corpi inferiori: l’astrale, l’eterico e il fisico.
[23] Il motto Alterius non sit, qui suus esse potest («Non sia d’altri chi può essere di se stesso») sovrasta il ritratto di Paracelso sul frontespizio della sua Opera Omnia. Il ritratto presenta interessanti paralleli con la carta del Matto: la mano destra è posata sull’elsa (linea retta o Io eretto) della spada, mentre la sinistra è posata sul pomello rotondo (cerchio o zero).
Mark Hedsel, L'iniziato