23 marzo 2016

La Sheelah-Na-Gig




La Sheelah-Na-Gig è una delle più strane testimonianze del paganesimo che si possano vedere nelle chiese europee. È l’immagine di una donna con le pudende esposte in modo tale da sembrare una porta spalancata. Il riferimento alla vulva come porta della nascita è chiaro: la figura aveva, forse anche nel mondo pagano, un’origine iniziatica. Meditando su questa immagine si ha l’impressione che la kteis terrena – il didietro della capra, tanto per intenderci – si sia tramutata nella bocca di una vergine sacerdotessa. L’apertura verticale è una promessa di accesso iniziatico, che conduce al di là del corpo fisico della Sheelah.

Si potrebbe forse sostenere che la Sheelah non è più pagana, che raffigura la nascita umana di Cristo, o che simboleggia il Cristo, come portale della vita. Ma sono argomentazioni che si smentiscono da sole, perché la Sheelah è molto più antica del cristianesimo e non basta cambiare interpretazione per cambiare il significato di un simbolo. Che queste immagini lascive siano riuscite a sopravvivere in tante chiese cristiane è già di per sé motivo di meraviglia e forse nasconde una lunga storia.

Secondo Gerald Massey, Sheelah deriva dall’egiziano sherah, che significa “sorgente”, “acque sorgive”, ma anche “rivelare”, “mostrare”, che è precisamente quanto fa la Sheelah dalle facciate e dai campanili delle chiese medievali: mostra le sue parti intime, la sua kteis. Avrete già capito che se non solo il nome, ma anche l’immagine è di origine egizia, allora la Sheelah esibisce il ru.

Senza alzarsi dalla sedia, il maestro allungò il braccio verso la lavagna e disegnò le due curve che formano il geroglifico, accentuando il movimento per dimostrare che il ru era formato da due falci di Luna.

Questo antico segno era a un tempo una kteis, una bocca e una porta, ed era costituito da due mezzelune. Il ru era la porta di ingresso al mondo spirituale, quella che conduceva nella camera dell’iniziazione. Era il passaggio della nascita, posto tra il regno materiale e quello spirituale. Il legame con l’iniziazione si è conservato, per esempio, in Irlanda dove la Sheelah viene talora chiamata Patrick’s Mother, “la madre di Patrizio”, e questo ci ricorda che fu San Patrizio a introdurre sull’isola l’iniziazione al cristianesimo, sostituendo agli antichi metodi iberici dei druidi quelli più avanzati di Cristo. La conversione fu graduale, e le immagini e i luoghi sacri più antichi continuarono a esistere. Già questo è di per sé interessante. Perché, se c’è al mondo una terra in cui gli antichi siti di iniziazione pagana sono ancora vivi, questa è l’Irlanda.

Ma torniamo al ru. Se è vero che è sopravvissuto nella figura semi oscena della Sheelah, è anche vero che compare in immagini cristiane molto più pudiche. Ru è diventato la Vesica Piscis, la mandorla mistica, che nell’arte medievale circonda la Madonna e a volte Cristo. La Vesica è formata anch’essa da due mezzelune che si incrociano. Comprenderete, naturalmente, quanto sia straordinario che la Sheelah sia riuscita a sopravvivere nell’arte ecclesiale: la kteis, per quanto ben mascherata, non è ovviamente un simbolo cristiano, d’altra parte la Sheelah non fa di certo mistero della sua mercanzia.

Se Massey è nel giusto, e il gig del nome deriva dall’egiziano kekh, allora il nome tutt’intero allude alle sue origini iniziatiche, e poiché in egiziano antico kekh significava “santuario”, si capirebbe perché mai la Sheelah si trovi esclusivamente sui muri delle chiese. O c’è forse ancora un significato più profondo? Che la Sheelah sia il retaggio – forse l’unico rimasto nell’arte cristiana – dell’antica magia sessuale tanto diffusa nel mondo pagano e ancora oggi praticata in oriente fra i tantrici? Quanto più si considera la questione, tanto più si è indotti, io credo, a vedere proprio questo nella Sheelah.

Mark Hedsel, L'iniziato

2 agosto 2015

Il mistero del sale




In alchimia il sale è uno dei Tre Principi, presenti sia nel cosmo sia nell’uomo: una triade mistica, composta dal sale, dal mercurio e dallo zolfo. Benché si presenti come una polvere bianca, inerte, il sale è uno dei grandi misteri e simboli dell’iniziazione. Nella tradizione alchemica esso era l’emblema di un patto sacro che non poteva mai essere rescisso, simile a quello che il neofita stringeva con la sua scuola o il suo maestro. «Il patto di sale» di cui parla l’Antico Testamento potrebbe avere un significato diverso da quello che gli viene di solito attribuito. Il Nuovo Testamento è meno evasivo al proposito: in Matteo, infatti, «sale della terra» sono gli eletti, ossia gli iniziati e non, come si tende oggi a pensare, quanti sono poco più che semplici contadini. Nei secoli lontani gli eletti sedevano al posto d’onore, «più in alto del sale», perché avevano conquistato il sale che avevano dentro di sé. Come si spiegherebbe altrimenti tutta l’importanza che nei convivi medievali veniva attribuita al salinum, ossia alla saliera?

Gli studiosi, naturalmente, potrebbero obiettare che le nostre associazioni linguistiche intorno alla parola sal contengono tracce di etimologie di origine diversa. Può anche darsi, però resta il fatto che già nei primi testi latini a noi pervenuti sal, oltre a denotare il comune sale da cucina, aveva il significato di «astuzia» e «arguzia». Un bravo buffone era sempre «un matto con del sale in zucca» e veniva remunerato per i suoi meriti, dunque non era affatto pazzo nel senso comune del termine.

Paracelso, il grande maestro del Rinascimento italiano, descrive in vari suoi testi alchemici la formula per realizzare l’acqua di sale, espressione con cui indica, in modo appena velato, l’iniziazione. Egli consiglia di «distillare un numero sufficiente di volte finché il sale non si distaccherà». Non ci vorrà molto, dice Paracelso,  perché il sale «non penetra nella natura interiore». Quando il sale se ne sarà andato, «allora nel liquido si troverà l’oro». Questa descrizione è quasi un sommario del processo iniziatico: la rimozione della scorza, che non penetra nella natura interiore, e il recupero sacro, nascosto all’interno. Analizzando la formula, ci si accorge che essa non produce, né per Paracelso né per noi, l’acqua di sale, bensì un’acqua desalinizzata, ossia un iniziato che non può più piangere. «Prima che gli occhi possano vedere, devono essere incapaci di lacrime» dice il testo arcano.

Gli alchimisti ponevano talora a emblema del sale il più semplice di tutti i sigilli: un minuscolo quadrato  o un piccolo rettangolo. Con quelle quattro linee che descrivono uno spazio vuoto – come lo spazio fra l’Aria e l’Acqua – intendevano delineare i misteri dei quattro elementi o disegnare una bara? Il reverendo Brewer, un colto collezionista di idee curiose, totalmente ignaro di esoterismo, ci ricorda la consuetudine, tuttora esistente, di porre una manciata di sale nella cassa del morto.

C’è forse un nesso fra il sale e la morte? Un altro sigillo del sale – usato con frequenza nei gruppi alchemici rosacrociani – era un cerchio tagliato a metà da una linea orizzontale Θ . Quel sigillo deriva dalla theta maiuscola di Thanatos, che in greco significa «morte».

In numerosi testi alchemici il sale rappresenta il processo mentale, che è un processo di morte. Il sale è il residuo dell’attività spirituale che avviene nella nostra testa: come nelle triade alchemica, è la scoria che resta quando la vita è volata via, è il cranio, il caput mortuum, la polvere bianca residua dopo l’estrazione dell’oro. È la cenere del pensiero.

Quando la testa – o la sua attività spirituale che chiamiamo mente – raggiunge il punto in cui non è più in grado di capire, in cui l’ordine dell’universo sembra frantumarsi, allora produce lacrime salate.

Ma perché mai il pensiero – quel processo che ha prodotto la nostra tanto decantata civiltà di superficiale razionalismo – dovrebbe essere associato alla morte nei circoli arcani? Noi moderni non dovremmo invece sostenere che il pensiero è la nostra salvezza, la strada che ci condurrà alla terra promessa? Qualsiasi iniziato che abbia un granello di sale, inutile dirlo, contesterebbe questa interpretazione. L’autore anonimo di A discourse of Fire and Salt («Discorso del fuoco e del sale») spiega chiaramente che fra il sale e il fuoco avviene uno scambio mistico. Ci sono due sali, afferma questo adepto, l’uno nato dall’attività del fuoco e l’altro il residuo rimasto quando le fiamme si spengono, che è a sua volta «un fuoco potenziale». In questa perpetua interazione fra fuoco e sale che sta alla base del mondo fenomenico il sale rappresenta lo stato inerziale della morte. Nessun alchimista tuttavia sosterrebbe mai che una cosa può morire nel senso di essere esclusa per sempre dalla vita. La morte è un interludio fra una vita e l’altra.

Un tempo, però, esisteva il sale del vero pensiero, che non era neppure sfiorato dalla contaminazione della morte. Allora, anche le invenzioni delle menti più raffinate, come quelle dei poeti romani, erano saporite come il sale, erano salsae, ossia mordaci e facete. Di certo i versi sgorgavano di getto dalla mente dei loro autori; in latino salire significa «saltare», «guizzare fuori», da cui la parola saltatore: i latini sapevano che dalla sfera spirituale le idee penetravano d’un balzo nella mente dei poeti. Una parola dal suono così simile al nome di quel semplice condimento quotidiano non può che suggerirci qualche profondo significato riposto. Sono molti i misteri del mondo antico che la parola sale richiama: c’erano, per esempio, i Salii, quei «saltatori» splendidamente vestiti, danzatori dell’aria, che costituivano uno dei tanti collegi sacerdotali romani. Di loro sappiamo soltanto che cantavano e parlavano in una lingua incomprensibile, che erano votati al culto di Marte e formavano una confraternita esoterica. La lingua incomprensibile che parlavano era la Lingua degli Uccelli – ossia il linguaggio segreto dell’esoterismo – e i loro «salti» erano una forma di danza sacra.

Mark Hedsel, L'iniziato

18 luglio 2015

La danza della gru




Anche la passione che ho rivelato a te e agli altri nella danza in tondo, la chiamerei un mistero.
(Cristo a Giovanni dopo la Passione, Atti di Giovanni)

Raccontano i miti greci come Teseo, dopo aver ucciso il Minotauro a Creta, facesse vela verso l’isola sacra di Delo, portando con sé Arianna e alcuni dei giovani e delle vergini ateniesi che aveva salvato. Raggiunta la terra ferma, Teseo e i compagni si diedero a una danza che riprendeva nei suoi movimenti le intricata sinuosità del labirinto da cui erano fuggiti. Quella danza era un’espressione di gioia traboccante, una celebrazione della fuga o il segno di un substrato esoterico legato al mito del labirinto?

Plutarco che la descrive, la chiama «danza della gru», perché, dicono i critici, i danzatori ne imitano i movimenti. Eppure la danza labirintica di cui Plutarco parla non assomiglia affatto a quella di un uccello.

Plutarco era, lo dice egli stesso, un iniziato e pertanto era abituato a celare le proprie verità ricorrendo alla Lingua Verde, per sviare i non adepti. La parola che egli usa per definire la danza è geranos: che essa non abbia qualche altro significato, sfuggito agli interpreti? È un’ipotesi plausibile, dal momento che in greco geraneion indicava una sostanza alchemica.

In realtà non è necessario setacciare i documenti dell’arte spagirica per trovare un significato più idoneo alla «danza della gru»: il termine greco, infatti, oltre a denotare quella che gli ornitologi chiamano la Gru cinerea, indicava anche la comune gru, la macchina usata per sollevare i pesi, una leva meccanica. I danzatori di Delo, che festeggiavano la vittoria sul Minotauro, ballavano forse con movenze tali da essere sollevati al di fuori del corpo fisico, verso le stelle?

È una domanda tutt’altro che peregrina, poiché proprio questo è lo scopo precipuo di alcune danze rituali, come indicano chiaramente i volteggi dei dervisci sufi, che ruotano in tondo per diventare tutt’uno con Dio e conquistare la quiete interiore. In Italia, esistevano scuole esoteriche di danza molto prima che i sufi introducessero le loro evoluzioni.

I disegni complessi tracciati dal vero danzatore non saranno per caso lo specchio del movimento cosmico, di quella che gli antichi bramini indiani chiamavano la danza di Shiva, divinità che rappresentava le forze generatrici nelle religioni vediche? I discepoli dell’iniziato Pitagora consideravano la danza un tentativo di riprodurre il moto dei pianeti e delle stelle, attribuendole uno scopo che è identico a quello che si propone la vera meditazione.

Un documento, definito «il più raro dei manoscritti occulti», descrive il viaggio che un neofita, librandosi al di fuori dal corpo, compie nello spazio: racconta dunque costui di avere goduto per un istante del dono di innalzarsi sulla superficie della Terra. Dapprima egli viene sollevato da una guida invisibile e sale così in alto che il nostro pianeta gli appare come una vaga nuvola.

«Fui portato» ricorda «a un’altezza immensa. La mia guida invisibile mi abbandonò e io discesi di nuovo. A lungo rotolai nello spazio…» Poi la guida lo solleva ancora, conducendolo a distanze incommensurabili. «Ho visto globi volteggiare intorno a me e terre gravitare verso i miei piedi…»

Nonostante la paura che lo prende, l’esperienza che questo neofita racconta non è tanto una prova quanto un preludio di quello che ora viene chiamato viaggio astrale, un viaggio nel mondo sidereo dei regni spirituali.

Le descrizioni di viaggi astrali, su fino alle stelle, non sono affatto una rarità nella letteratura arcana. Ma in questo innalzarsi, dietro una guida invisibile, non potrebbe forse esservi la conferma del significato esoterico che abbiamo suggerito per la «danza della gru»? Narrando il suo viaggio astrale, l’autore, che potrebbe essere il conte di Saint-Germain, era sicuramente convinto di raccontare un episodio della danza descritta da Plutarco. Ogni capitolo di questo importante libro è preceduto da un’immagine esoterica. Quella relativa al racconto dell’innalzamento nei cieli contiene tre immagini e quattro blocchi di scritte in un codice segreto. Uno dei tre oggetti è un’antica ara, su cui arde una fiamma ascensionale. Un secondo è un candeliere con un’unica candela, la cui base è formata da serpenti di bronzo intrecciati. Il terzo è una gru in volo, con le zampe e le ali nere, il corpo argenteo, la testa rossa e il collo dorato. È dunque un uccello alchemico: il nero rappresenta Saturno, l’argento è la Luna, il rosso Marte e l’oro è il Sole. Come la fiamma sull’altare e la candela sollevano verso l’alto l’anima della luce, altrettanto farà la gru.

La nostra tesi è che chi entra in uno stato di meditazione profonda, sia attraverso l’immobilità sia attraverso la danza, viene sollevato verso il mondo spirituale da forze invisibili, esattamente come fa una gru. Viviamo in un pianeta che è in perenne danza. La sua coreografia è ancora segreta, anche per gli astronomi, perché se è vero che la Terra si muove in circolo intorno al Sole, è anche vero che oscilla, e che in termini cosmici il suo centro solare è ben lontano dall’essere fisso. Chi saprebbe descrivere con precisione la vera traiettoria di un movimento così complesso? Noi stessi facciamo parte del cosmo, della Terra, e di questa traiettoria e danza cosmica. Quanti cercano dentro di sé la quiete per raggiungere il regno dello spirito sono già in movimento, per il fatto stesso di dimorare sulla Terra. Quali che siano le motivazioni di chi medita, ogni meditazione avviene nella danza.

La sostanza di cui è fatto il mondo è un’immagine riflessa sulla superficie immobile di uno stagno. Senza la superficie, in cui acqua e aria sembrano incontrarsi, non ci sarebbe alcun riflesso, e il riflesso è l’unica cosa che esiste. La speranza più grande per l’anima che si evolve fra tanta illusione sta nella meditazione, nel fortificare la mente. Questa fissità nel bel mezzo del cerchio di fuoco roteante in cui danza il dio Shiva è il silenzio davanti al pulsare del cuore della natura. La speranza, come ha detto T.S. Eliot, sta «nel punto immobile del mondo che gira».

Il silenzio interiore che nasce dalla meditazione è minacciato dall’interno e dall’esterno. A volte i pericoli sono come onde lievi che lambiscono la riva; a volte sono furibondi marosi che si schiantano contro il litorale. Come la persona retta che ha commesso una cattiva azione ha periodici sensi di colpa ogni volta che riaffiorano i ricordi, così tutti gli esseri umani immersi nella vita sono soggetti ad attacchi di karma negativo. Sia le aggressioni interiori, sia quelle esteriori, che i saggi orientali chiamano vasana, nascono dal karma passato. I vasana affiorano alla coscienza, uno dopo l’altro: sono, dice la letteratura sanscrita, come onde sulla sabbia. I primi monaci cristiani non erano poetici come gli yogin indiani e propendevano piuttosto per immagini teriomorfe: le onde del mare erano ai loro occhi animali e demoni mostruosi che distraevano la mente con fantasie deliranti, maschere dietro cui si nascondevano i sette peccati capitali.

Qual è la natura di questa danza della gru, danza della vita, in cui siamo lambiti da onde karmiche? La danza esterna – sia che ci innalzi fino ai cieli, sia che ci faccia semplicemente roteare nello spazio – dipende in realtà da un’altra danza: quella del sangue. È la circolazione sanguigna che stabilisce il ritmo della nostra danza intima: è un mare interno, le cui onde sono anch’esse simili a vasana e misurano inesorabilmente il flusso e il riflusso degli imperativi karmici.

Mark Hedsel, L'iniziato

28 marzo 2015

I misteri astrologici di Ferrara: la sala dei Mesi




Entrammo a Palazzo Schifanoia da via Scandiana, attraverso un portone che sicuramente era il meno maestoso di tutti quelli dei palazzi italiani. Mi sembrava incredibile che un ingresso così modesto conducesse a un tesoro qual era la stanza con gli affreschi dei Mesi. Come tante altre immagini arcane in Italia, anche queste vengono chiamate in modo improprio: non si tratta affatto della rappresentazione dei mesi, bensì dello studio dei tre mondi interpenetranti della materia, dell’anima e dello spirito, unificati da un oscuro tema astrologico.

Purtroppo non tutti gli affreschi si sono conservati; quelli sopravvissuti sono distribuiti in gruppi di tre sulle pareti. La rappresentazione di ciascun «mese» è a sua volta tripartita: la fascia superiore presenta il trionfo degli dei associati al mese, quella centrale i segni dello zodiaco con le relative personificazioni astrali e quella inferiore la vita umana rappresentata attraverso personaggi contemporanei del pittore cui sono attribuite alcune parti della decorazione: Francesco del Cossa.

La sala dei Mesi fu probabilmente chiamata così perché il disegno ermetico della fascia centrale ha per tema i dodici segni zodiacali che venivano comunemente associati ai mesi. Anch’essa è suddivisa in tre sezioni verticali, non contrassegnate graficamente: si tratta di un espediente artistico per rappresentare i decani secondo quello che era considerato l’antico metodo egizio, la cui memoria era sopravvissuta nell’astrologia medievale. In base a questo metodo, ogni arco dello zodiaco veniva suddiviso in tre sezioni identiche, chiamate talora «facce» e talora «decani» e caratterizzate da immagini specifiche. Esistevano diverse tradizioni per stabilire il pianeta governatore di ognuna di queste sezioni, ma in ogni caso venivano utilizzate tre distinte figure come simbolo di tali divisioni.

Se ne può vedere un esempio nella rappresentazione delle tre «facce» dei Pesci nella figura seguente.


Sono le immagini appartenenti a questa tradizione che compaiono nella fascia zodiacale degli affreschi.

Il «mese» che stavamo osservando era in teoria dedicato a marzo. La fascia centrale raffigura infatti il capro dell’Ariete. Due simboli dei decani sono rispettivamente davanti e dietro l’animale in corsa, mentre il terzo lo sovrasta.


Nella fascia superiore è dipinta una complessa scena mitologica, che ha al centro Minerva in trionfo sul suo carro: la dea della sapienza acquistò poi il carattere guerriero, ed è probabilmente per questo che è stata associata all’Ariete, segno dominato dal pianeta Marte.

La fascia più bassa degli affreschi raffigura il mondo terreno. In alto, a sinistra, il duca Borso dispensa la giustizia, una delle azioni associate all’Ariete. Più sotto, sempre a sinistra, lo si vede andare a caccia in sella al suo cavallo, con levrieri e falconi: la caccia è il diletto di Marte e dell’Ariete.

Purtroppo la parte inferiore della fascia, essendo la più facilmente raggiungibile, è quella che ha subito i danni maggiori, conseguenza dell’abbandono e dell’incuria subentrati con la decadenza di Ferrara; per un certo periodo Palazzo Schifanoia fu addirittura adibito a laboratorio per la lavorazione del tabacco e, benché fossero stati intonacati, gli affreschi furono rovinati dall’improprio uso quotidiano che fu fatto della sala dei Mesi.

L’organizzazione degli affreschi in tre sezioni si ripete identica in quelli dedicati a settembre, o meglio al segno della Bilancia con i suoi tre decani.


A interessarci in particolare era la fascia più alta, quella mitologica, perché vi si vede Vulcano, il dio che portò l’alchimia fra gli uomini, su un carro trainato da scimmie. Chissà se i pittori che l’avevano affrescato sapevano che la presenza di questi animali rinviava alla letteratura ermetica di Toth, il dio dalla faccia di scimmia?

A sinistra del carro gli alchimisti battono il ferro sull’incudine, forse un’allusione al nome Ferrara, il luogo in cui si lavora il ferro.

A destra ci sono due figure coperte da un lenzuolo che, se non fosse d’argento, potrebbe essere scambiato per un sudario. Pare che dormano, ma non è affatto così: sono Marte e Ilia che si stanno amando, e dalla loro passione nascerà una nuova civilità. La bella veste azzurra e bianca della ninfa è delicatamente distesa accanto al letto, mentre Marte, meno rispettoso delle cose materiali, ha gettato a terra l’armatura. I due amanti sono senza vesti (ossia privi del corpo fisico) a significare che si trovano nel mondo più alto, ossia quello spirituale. Marte, che è un dio, non dovrà discendere ai livelli più bassi del ples daun, finché non sarà di nuovo preso dal desiderio di congiungersi con una donna. Ilia, invece, che è umana, dovrà tornare sulla terra firma, e per il suo peccato verrà punita con la morte.

Il segreto di questa coppia di amanti è raffigurato sul lato opposto del carro di Vulcano, dove si trova uno scudo. Sembra una porta verso lo spazio. Sullo scudo è dipinta la lupa che allatta Romolo e Remo. La ninfa adagiata nel giaciglio sta allora concependo, sotto la guida esperta di Marte, i due gemelli, e diventerà la madre dei leggendari fondatori di Roma.

Come suggerisce il tema dell’affresco, questo concepimento è un’alchimia spirituale: è la nascita dello spirito che fa da contrappunto all’alchimia più materiale dei fabbri sull’altro lato del carro. Anche il drappo argenteo che avvolge i due amanti ha un valore simbolico: è l’argento delle stelle, più che un metallo. Ilia era una delle vergini vestali, cui era proibita la conoscenza carnale, e Vulcano era al servizio di un fuoco esoterico. Racconta il mito che dopo la nascita illegittima dei gemelli il fratello Amulio gettò Ilia insieme ai figli nel Tevere: i gemelli si salvarono miracolosamente, ma lei annegò.

I fabbri a sinistra battono il ferro sull’incudine. Ma su che cosa poggia l’incudine? Sembra una pietra nera. Quasi sicuramente è il lapis niger che ricorda la tomba del fondatore di Roma. Non sorprende che una simile pietra compaia in un simbolismo alchemico: forse indica la morte o la scissione di cui la morte non è che un segno – il ritorno dello spirito nei regni dello spirito. E intanto Vulcano, trainato da una coppia di scimmie e circondato da altre scimmie, sette in totale, osserva dall’alto questa dovizia di simboli ispirati alla sua arte del fuoco.

Mark Hedsel, L'iniziato

27 marzo 2015

Arte esoterica a Verona: la porta bronzea di San Zeno




Quel martedì pomeriggio, quando parcheggiammo l’automobile nella piazza davanti a San Zeno, Rachel e Christobel erano accanto a uno dei leoni marmorei che stanno a guardia del portico della chiesa. Fummo sorpresi di vederle, perché avevamo accennato solo vagamente ad un incontro, e questo quasi due settimane prima; inoltre, sono così tante le bellezze dell’Italia settentrionale che possono tentare un viaggiatore facendolo deviare dal suo itinerario! Qualche istante dopo eravamo già sotto il portico ed esaminavamo le splendide formelle della porta bronzea. Era un pomeriggio caldo, soffuso di quella piacevole indolenza che si coglie in quasi tutte le piazze italiane, eppure in quell’aria pigra percepivamo un’attesa, come se stesse per accadere qualcosa di importante.

Per qualche istante guardammo in silenzio i pannelli: sotto i raggi del Sole i bassorilievi si stagliavano nitidi in mezzo alle ombre.

«Di che periodo sono?» chiese Christobel.

«Alcuni del XII, altri del XIII secolo.»

«Come quelli della Sacra di San Michele?»

«Sì, forse la Sacra è un poco più antica.»

«Ci sono elementi astrologici?» domandò Rachel.

«Non ovvi» replicammo. «Ma che ne dite di quello?» e indicammo uno dei pannelli.


«È un’acrobata?»

«No, non direi. È Salomè che danza.» Capivamo perché Rachel avesse pensato all’acrobata. Salomè, presa dal desiderio di compiacere Erode, si contorce fino a formare un cerchio. Con una mano si afferra un piede e lo tira verso la testa, danzando, quasi letteralmente, in tondo. «Osservate come la testa sfiori i piedi. Questa è astrologia. O almeno, astrologia medievale.»

«Perché?» la voce di Rachel era dubbiosa.

«Ogni parte dell’essere umano è collegata con una parte del cosmo.»

Avremmo voluto avere davanti l’immagine medievale dell’uomo zodiacale per illustrare i segni che governano il corpo umano, mentre spiegavamo: «La testa è sotto il segno dell’Ariete, la gola del Toro… i piedi dei Pesci. Perciò la testa e i piedi sono governati dai due punti estremi dello zodiaco. Nel cerchio zodiacale i due segni si toccano: i piedi dei Pesci incontrano la testa dell’Ariete. Salomè imita lo zodiaco, unendo il passato dell’Ariete al futuro dei Pesci. I primi cristiani eseguivano danze sacre, nel corso delle quali cercavano di sintonizzare il corpo con i movimenti dei pianeti. Questa è vera astrologia.»

«Salomè sembra un pesce» osservò Christobel.

«Sì, anche questo fa parte del simbolismo. In un certo senso, Salomè è un pesce. Guardate.» Indicammo un punto sulla destra del pannello. «Ecco di nuovo Salomè, con il capo reciso del Battista. Lei è il Pesce, e San Giovanni è l’Ariete: un altro simbolismo cosmico.»

L’uso del pannello offriva la possibilità di realizzare quella che i critici moderni chiamano una «rappresentazione continua»: il tempo viene condensato, e azioni che nella narrazione sono separate vengono raffigurate su un unico piano spaziale. È una tecnica molto antica, risalente all’arte egizia, fondata sul concetto che l’immagine è eterna, ossia è «al di fuori del tempo».

«Ci sono pesci in diversi punti» osservò Rachel. «Guardate, persino sulle foglie.» Quelli di alcune formelle sembravano quasi disegni astratti, con foglie e rami fra cui si annidavano uccelli e pesci.

«Sì.» annuimmo, sorridendo. C’erano due pesci sotto due uccelli e formavano una croce. «Forse vi meraviglia vedere i pesci sugli alberi, come nei racconti biblici, ma non sono stati messi lì semplicemente per stupire. Le foglie e i rami sono un simbolo medievale per quello che noi oggi chiamiamo l’eterico, ma che lo scultore avrebbe probabilmente chiamato quintessenza

«Il quinto elemento?»

«Sì. L’elemento invisibile che tiene uniti gli altri quattro, senza il quale regnerebbe eterna discordia nel patto fra le cose.» Eravamo scivolati, senza accorgercene, nelle citazioni poetiche.

«Quella stessa quintessenza di cui ci ha parlato alla Scala dei morti?» domandò Rachel.

«Proprio quella. Se osservate bene, vi accorgerete che in realtà l’intero pannello è un’allegoria del quinto elemento. Gli uccelli sono l’Aria, i pesci l’Acqua, le piante la Terra e l’orifizio a forma di fiamma fra gli uccelli e i pesci è il Fuoco. Al centro del fuoco ci sono le radiazioni cosmiche del quinto elemento.»

«E pensare che credevo bastasse conoscere la Bibbia per capire l’arte cristiana» disse con una smorfia Rachel.

Scoppiammo tutti e tre a ridere, più che altro per l’espressione buffa comparsa sul viso di Rachel. «Eppure anche la Bibbia ha livelli di simbolismo ancora inesplorati.» Pensieri sulla complessità delle metafore delle Scritture ci attraversarono come un lampo la mente, ma non volevamo fare discorsi troppo complicati con le due ragazze. Tuttavia, una o due cose era forse il caso di spiegarle.

«Non tutti i bronzi sono in realtà di ispirazione biblica; alcuni sono basati sulla Legenda Aurea, una raccolta di miti, leggende e mezze verità sulla vita dei santi, trascritta da Giacomo da Varazze più o meno nello stesso periodo in cui furono scolpite queste porte. La formella con San Zeno che pesca racconta proprio un episodio della Legenda Aurea

«Ma per lo meno qui il simbolismo è cristiano» osservò Christobel, che, essendo una credente convinta, era stata visibilmente turbata dalle immagini pagane della Sacra di San Michele.

«Se ti interessa il simbolismo cristiano, guarda quella crocifissione. Osserva come il Sole irradia la sua luce verso l’esterno. La testa al centro di quel cerchio è quella di Michele, l’arcangelo del Sole.»


«E chi è l’angelo sulla Luna?» domandò. La figura alata spuntava dalla falce di Luna, con le punte rivolte verso l’alto, come una barchetta.

«È Gabriele, l’arcangelo della Luna. La Luna sovrasta la mano destra di Cristo e il Sole la sinistra. La Luna a barchetta è il simbolo dell’Acqua, mentre il Sole è il simbolo del Fuoco. Sono le due forze opposte del cosmo: nella concezione medievale il fuoco sale, mentre l’acqua scende. E tuttavia il mistero cristiano consiste proprio nel «miracolo» del fuoco che scende. Guarda: c’è un punto in cui la luce del Sole assume la forma di un’ala, si distacca dal disco solare e si posa sulla corona di spine di Cristo; questo significa che Cristo, benché crocifisso e morto, è ancora vivo. È vivo nella quintessenza.»

«Se non ricordo male» disse Christobel, «ci fu un’eclisse al momento della Crocifissione.»

«Sì, le tenebre oscurarono la faccia della Terra perché il Sole si era spento, o comunque qualcosa era accaduto. Gli artisti sono sempre stati affascinati dal significato simbolico dell’incontro tra il Sole e la Luna, in particolare nei dipinti che hanno per soggetto la Crocifissione. In questo pannello la luce ricompare in una forma più elevata, come corpo di Cristo. Il Sole-Zodiaco proietta la sua luce su Gesù in croce, affinché, per suo tramite, l’umanità possa fruirne. Esiste un nesso fra questo simbolismo e quello dell’Ariete e dei Pesci contenuto nel pannello di Salomè. Nella Crocifissione la luce piove sul capo di Cristo e i due uomini ai lati della croce sfiorano i piedi di Gesù con i loro piedi. È la stessa allegoria dell’Ariete e dei Pesci. In termini strettamente cristiani è un commento ai primi versetti del Vangelo di Giovanni.»

«E i due uomini? Uno ha in mano uno strumento di tortura. Chi sarebbe?»

«È Nicodemo. Ha le tenaglie. Con quelle strapperà le unghie dalle mani di Cristo.»

«E l’altro, quello che cinge Cristo con le braccia?»

«Quello è Giuseppe d’Arimatea, che accompagnerà Gesù nel sepolcro. È lui che, secondo la leggenda, ha portato in Inghilterra il Graal e l’ha sepolto a Glastonbury. Il suo piede tocca quello di Cristo. Di nuovo i Pesci. Indicano che Giuseppe d’Arimatea è diventato pescatore di uomini sotto la guida di un Pesce. Diversi secoli dopo la realizzazione di questa porta, William Blake scrisse poesie ed eseguì disegni sul tema di Giuseppe d’Arimatea. Blake sapeva cogliere i simbolismi nascosti, e nel racconto della sepoltura di Cristo percepì un significato molto profondo. Era convinto che Giuseppe fosse in segreto un discepolo di Cristo e fosse poi giunto fino in Inghilterra, portando con sé il Graal, che aveva sepolto su un colle, così come aveva sepolto il corpo di Cristo in una caverna nella roccia.»

Le due ragazze osservarono la porta con un rinnovato interesse. Rachel cominciò a contare i raggi del Sole. Erano ottantotto, come le fiamme del cerchio di fuoco del Signore della danza, Shiva.

Christobel a sua volta contò i pesci sparsi nei vari pannelli. Arretrammo di qualche passo e restammo a guardare. Era affascinante vedere un’opera esoterica irradiare la sua influenza e trasmettere i suoi simboli arcani ancora dopo tanti secoli.

Appena prima, mentre parlavamo, avevamo notato un uomo allampanato, pantaloncini e camicia a scacchi aperta sul collo, con la faccia cotta dal Sole e un sorriso cordiale. Si aggirava nei dintorni, abbastanza vicino per ascoltare le nostre parole. In spalla aveva un grosso zaino sul quale era cucita una bandiera a stelle e strisce. Chissà se sapeva che quella bandiera era un simbolo segreto e che le strisce rappresentavano il ples daun, mentre le stelle bianche erano i cieli? E sapeva che sulla porta davanti a noi c’era, come sul suo stendardo, una stella a cinque punte – la stella di Betlemme – e che quella stella era un geroglifico sacro egiziano?

L’uomo indugiò per qualche istante sugli scalini del portico, poi all’improvviso se ne andò prendendo verso nord e ben presto scomparve alla nostra vista.

Christobel riportò l’attenzione sulla porta. Indicò la formella in cui compariva un uomo dalla lunga barba in groppa a un asino.


«È Cristo che entra a Gerusalemme?»

«Gli assomiglia molto, ma in realtà è Mosè che torna in Egitto in cerca dei suoi fratelli. Il bastone che ha in mano è la bacchetta magica con cui ha compiuto i miracoli davanti al faraone.»

Christobel andò a esaminare il pannello più da vicino. «Nel rotolo di pergamena che ha in mano non c’è scritto nulla!»

«È vero. Ma per un osservatore del XII secolo sarebbe stato ovvio che l’ingresso in Egitto di Mosè profetizzava l’entrata di Gesù a Gerusalemme, avvenuta anch’essa sopra un asino.»

La ragazza annuì. «È un’immagine iniziatica?»

«Per quelli che sanno, sì. L’entrata a Gerusalemme è il ritorno a casa, così come lo era, in fondo, il ritorno in Egitto: nella tradizione arcana l’esoterismo occidentale era il risultato della fusione di idee ebraiche ed egizie. È questo che “profetizza” il ritorno di Mosè. Ma l’immagine ha anche un altro significato, che riguarda la redenzione. Mentre Cristo non ha bisogno di redenzione spirituale, l’asino che lo trasporta si trasforma al contatto con il Salvatore. Gerusalemme è il simbolo del mondo spirituale, la cui soglia può essere varcata dagli iniziati. Neppure una sciocca creatura quale è l’asino può oltrepassare le sacre porte senza essere toccata dallo spirito.»

Christobel rimase in silenzio per un poco, poi osservò: «Troppo spesso dimentichiamo che il cristianesimo è nato dall’unione di antiche credenze ebraiche ed egizie».

Concedemmo a questa acuta osservazione il silenzio che meritava, annuendo.

«Le porte di San Zeno sono l’unico esempio di arte esoterica esistente a Verona?» chiese la donna.

Soppesammo la domanda per qualche istante, sorridendo al ricordo di un altro asino, poco lontano.

«Posso farti un indovinello?»

Christobel annuì con entusiasmo. «Come gli oracoli?»

«Sì. Nell’antico battistero, che ora si chiama San Giovanni in Fonte, accanto al Duomo di Verona, c’è un fonte battesimale monolitico, di forma ottagonale. Alcune sue parti furono probabilmente scolpite da Brioloto, che, attivo fra il 1189 e il 1220, eseguì anche alcune delle sculture della facciata di San Zeno. Su ognuno degli otto lati del sacro fonte c’è un’immagine cristiana. Sul lato quasi di fronte alla porta è raffigurato Cristo che, in groppa a un asino, fa il suo ingresso a Gerusalemme… Bene, entrando in chiesa osservate l’arco sovrastante la testa dell’asino; è stato modificato, l’unico fra i quaranta del fonte battesimale. Ora io mi chiedo: perché? Perché su quell’arco Brioloto avrebbe dovuto scolpire un gatto con un topo in bocca?»

La mia domanda le aveva incuriosite e dopo qualche istante Rachel e Christobel si misero in spalla lo zaino e imboccarono via Procopio, dirigendosi verso San Giovanni. Probabilmente non ci saremmo più incontrati. Le due ragazze, seguendo il nostro consiglio, sarebbero partite qualche ora dopo per Venezia per studiare i misteri astrologici racchiusi nella facciata del Palazzo Ducale.

Mark Hedsel, L'iniziato